Lincoln, Spielberg e Daniel Day-Lewis raccontano la bellezza della politica

Su Rai Movie alle 21.10 Spielberg racconta una pagina fondamentale dell’operato di Lincoln: la fine della guerra civile e l’abolizione della schiavitù. Emerge la grandezza dell’uomo e dello statista, ma senza nessuna retorica. Day-Lewis in stato di grazia

Lincoln

INTERAZIONI: 2012

Lincoln è, senza mezzi termini, uno degli esiti più alti del cinema di Steven Spielberg. Un film in cui l’idealismo non sottostà al ricatto della retorica e nel quale gli snodi fondamentali della storia americana, la fine della guerra di secessione e l’abolizione della schiavitù, sono raccontati senza alcuna concessione spettacolare.

Nella breve sequenza d’apertura è concentrato l’orrore di un conflitto combattuto letteralmente a mani nude, definendo alla perfezione il perimetro in cui si muove la vicenda. È il gennaio del 1865, quarto anno della sanguinosa guerra di secessione, che avrebbe causato almeno seicentomila morti. L’azione del presidente repubblicano Lincoln (Daniel Day-Lewis) prosegue lungo due direttive: porre fine al conflitto, naturalmente, in un momento in cui la Confederazione degli Stati ribelli del Sud è alle corde. Ma, ancora prima, far approvare dal Congresso il tredicesimo emendamento alla Costituzione, per abolire la schiavitù.

I Confederati, intenzionati alla resa, hanno inviato i loro emissari a Washington. Per il presidente è indispensabile che il voto preceda la pace, altrimenti, con gli stati razzisti del Sud riammessi nell’Unione, la fine della schiavitù sarebbe impossibile. La missione sembra disperata: perché la votazione è fissata per il 31 gennaio; e perché, per ottenere la maggioranza qualificata, è necessario che, oltre ai repubblicani, almeno 20 elettori democratici si esprimano per il sì, contro il loro schieramento.

Lincoln
  • Attributi: DVD, Drammatico
  • Day-Lewis, Filed, Holbrook, Spader (Actor)

Partendo dal documentato saggio storico di Doris Kearns Goodwin, Team Of Rivals: The Political Genius Of Abraham Lincoln, Steve Spielberg realizza un film che, sorretto dalla sceneggiatura di Tony Kushner (il drammaturgo del pluripremiato Angels In America), scava dentro la sostanza politica degli accadimenti, costruendo insieme un ritratto che restituisce la grandezza senza magniloquenza del leader alla guida del cambiamento.

Abraham Lincoln è un uomo stremato dalla lunghissima guerra e dalle responsabilità. Soffre silenziosamente per la morte di un figlio, accudisce la moglie stravolta dal lutto (Sally Field), cerca di evitare che il figlio maggiore (Joseph Gordon-Levitt) si arruoli mettendo a repentaglio anche la sua, di vita. Continua però a perseguire pervicacemente l’obiettivo che si è posto, con una determinazione calma e tutti i mezzi possibili. Incarica il segretario di Stato (David Strathairn) di assoldare dei lobbisti che conquistino (diciamo pure comprino) i voti dei democratici. E sul suo fronte deve smorzare gli entusiasmi del deputato Stevens (Tommy Lee Jones), le cui tesi abolizioniste radicali rischierebbero di alienare simpatie alla causa e far saltare il banco.

In Lincoln non manca l’affilata retorica populista dei politici di professione, ma ciò che risalta in primo piano è il valore della politica come missione, nutrita insieme dell’idealismo dei princìpi e del realismo della strategia (la metafora della bussola che Lincoln usa confrontandosi con Stevens). Il film è un lungo viaggio dentro la parola come strumento di dialogo, mediazione e soprattutto persuasione. Il presidente pare divagare con racconti che assomigliano a parabole, e invece mira sempre lucidamente, ma in maniera indiretta, al perseguimento del risultato. Nulla in questo film ha la cadenza dell’enfasi. Una sensazione resa grazie alla cura certosina dell’immagine: mai altisonante, con la fotografia polverosa di Janusz Kaminski, che sceglie tonalità livide per gli esterni e scava negli interni spenti volti e corpi spesso in penombra, a partire da un Lincoln quasi spettrale, riconoscibile solo per l’inconfondibile sagoma alta e dinoccolata.

Daniel Day-Lewis alla notte degli Oscar con la sua terza statuetta per Lincoln

Accanto alla sagacia di uno Spielberg mai così controllato, c’è un eccezionale protagonista, Daniel Day-Lewis, al terzo Oscar come migliore attore, un record. La sua prova fa capire cosa può essere la forza tranquilla della leadership, in una combinazione di determinazione, sensibilità e carisma naturale. La sua voce è spesso un sussurro (e purtroppo, sebbene lo doppi Favino, è un peccato non vedere il film in originale). Anche nei momenti di alterazione il furore passa attraverso una sordina che restituisce la sostanza della fermezza depurata della rabbia, per questo ancora più autorevole. La politica è un esercizio laborioso e spossante, che passa attraverso compromessi e riadattamenti millimetrici, nei quali Lincoln si spende senza sosta né arroganza, capace di ascoltare e dare attenzione a tutti, mosso da un principio insieme di umanità e di acume tattico.

Ne emerge, in ultima istanza, un ritratto autenticamente monumentale, ma i cui singoli ingredienti non hanno nulla di ridondante. La figura del Lincoln tratteggiato da Spielberg e Day-Lewis è quasi indistinguibile, un elemento silenzioso sullo sfondo. Ma su quello sfondo, col suo filo di voce, si staglia come fosse sempre in primo piano, attraendo come una forza calamitante l’attenzione e le attese di tutti. E come il suo protagonista così è il film: apparentemente timido e reticente, ma in ultima analisi, come dicevamo, se non il più bello, sicuramente il più adulto di Spielberg, con uno stile senza virtuosismi, sempre al servizio della sostanza del racconto.