I nostri politici si comportano come camerieri che servono piatti di mer*a

Se a voi piace mangiare quei piatti, fate pure. Ma smettetela di prendervela con quelli che ve lo fanno notare, come me


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Le metafore non mi vengono più bene.

Forse non mi sono mai venute bene, non so, anche se almeno alcune sono entrate nell’immaginario collettivo, lo so, cito sempre i cavalli che affogano dal buco del culo, ma direi che me lo posso permettere, no?

Adesso le metafore non mi vengono più bene.

Sarà che alla soglia dei novanta giorni di clausura, oggi sono ottantasette, questo è l’ottantasettesimo capitolo del mio diario del contagio, comincio a essere un po’ con il cervello incartato.

Ora, anche qui, qualcuno potrebbe asserire che io sia da sempre col cervello incartato, e che i miei lunghi giri di parole, i miei racconti schizzati di questo diario del contagio ne sono conferma e riprova, ma vi garantisco che quelli erano lucidi, stando almeno al mio concetto di lucidità, molto lucidi. Sapevo, cioè, cosa volevo scrivere e lo scrivevo. Immagini, giri larghi, scarti repentini, deviazioni sul percorso principale, tutto seguiva un mio filo logico, una struttura ferrea, forma che si fa sostanza.

Ora sono incartato.

Non ho stimoli.

Non ho input.

Sono stanco.

Per questo dico che le metafore non mi vengono più bene, se voglio provare a parlare di qualcosa senza parlare direttamente di qualcosa sono in difficoltà, e parlare di qualcosa, quando si è tappati in casa da troppo tempo, finisce per essere spesso fare un giro turistico dentro il proprio ombelico, ombelico che a furia di girarci dentro, non ha più angoli sconosciuti, neanche quella lanuggine di cui ignoro il nome che potrebbe rappresentarne la fauna, un deserto conosciuto e inanimato.

Le metafore non mi vengono più bene, confermo.

Lo avete appena visto.

Però giorni fa ne ho azzardata una, sui social, che ora provo a dire meglio, perché resto fermamente convinto che dica cose che, le volessi dire in maniera più diretta, sarebbe noiosa, ma che passeggiando su quel lato della strada è quantomeno accattivante il minimo.

Siccome però le metafore non mi vengono più bene, credo che strada facendo a racconti finito spiegherò di cosa intendevo parlare in detta metafora, rendendo il concetto stesso di metafora nullo.

Farò, in sostanza, esattamente quel che faceva all’epoca Paolo Rossi, parlo dell’epoca in cui fece irruzione dentro la nostra televisione, Angelo Guglielmi e la sua RAI3 santo subito, quando, appunto, diceva che avrebbe specificato che quella che aveva detto era una battuta, così, con il semplice gesto di alzare la mano, per permettere ai carabinieri presenti in teatro, il programma, Su la testa, era trasmesso da un teatro, luogo naturale per Paolo Rossi, diceva che avrebbe specificato che quella che aveva detto era una battuta, così, con il semplice gesto di alzare la mano per permettere ai carabinieri presenti in teatro di capirle e poterne ridere.

Battuta.

Risate.

Mano che si alza.

Risate che partono in ritardo.

Risate più forti di chi aveva riso subito.

Applausi.

Ecco quindi la metafora, parto già con la mano alzata, i carabinieri che stiano leggendo si concentrino bene.

Proviamo a fare un esercizio di fantasia. Fa sempre bene portare a spasso la fantasia, portarla a correre, facendola anche stancare, come Mario Venuti suggeriva di fare con la vita nella sua Crudele, grande canzone quella, davvero, bravo Mario e bravo Pippo Kaballà che quei versi ha scritto con lui e per lui. Proviamo quindi a far finta che tutto quello che da due mesi e mezzo ci tiene in casa, più o meno, in ostaggio, perché anche chi esce di casa, che sia per andare al lavoro, per andare da congiunti e affetti stabili, ormai anche gli amici credo rientrino nella categoria, seppur, come ha detto qualcuno, aprire anche agli amici è stato più fare una sanatoria che cambiare un decreto legge, molti già lo facevano, anche chi esce di casa, anche chi è sempre uscito di casa, perché poteva o doveva, in fondo, è stato ostaggio del Coronavirus, chiusi negozi, ristoranti, bar, musei, sale concerti, chiese e chi più ne ha più ne metta, proviamo quindi a far finta che tutto quello che da due mesi e mezzo, quasi tre, ci tiene in casa, in clausura, in una quarantena che è già diventata un’ottantena e che preso toccherà quota cento, non sia successo.

Non c’è stato il Coronavirus.

Siamo a gennaio, per capirsi.

Anzi, no, a ottobre, perché pare di capire che il Covid19 sia stato identificato come tale, quel 19 messo lì appositamente, a novembre 2019, quindi siamo a ottobre 2019, i pipistrelli sono ancora solo topi con le ali che volano nella notte, non quelle immani teste di cazzo che hanno rischiato di spazzarci via come qualcuno sta provando a farci credere.

Oppure andiamo avanti nel tempo, rimpossessiamoci del concetto di futuro. Siamo a ottobre 2020, tutto è stato archiviato, hanno trovato un vaccino, hanno deciso che il plasma è la salvezza, il virus si è semplicemente talmente indebolito da non far più paura, poco più di una semplice influenza, insomma, siamo tornati a una normalità che somigliasse a quella prima del Coronavirus. Non riuscite a fare questo esercizio, chiedo troppo, ok, siamo a ottobre 2025, il Coronavirus è morto e sepolto, magari ci siamo già tolti dai coglioni anche altre pandemie, una volta che si è partiti perché fermarsi?

Al momento, però, ottobre 2025, tutto è nella normalità per come la conoscevamo prima del Coronavirus. Niente pandemia in vista.

Niente distanze sociali, per intendersi, quindi. Niente mascherine o guanti monouso. Possiamo abbracciarci quando incontriamo qualcuno, andare ai concerti in mezzo a decine di migliaia di persone, fare i tuffi al mare appoggiandoci sulle spalle dei nostri amici, se siamo tra quanti praticano il sesso toccata a fuga possiamo anche scopare con la prima o il primo che capita, volendo anche con il primo e la prima che capita, così, senza manco dirci come ci chiamiamo.

Non è di questo che sto parlando, questi sono dettagli.

I dettagli, in questa metafora, sto alzando di nuovo la mano, i carabinieri hanno un tempo di attenzione molto basso, credo, questa è una metafora, quindi se per voi è più normale, oggi, pensare che la scena che sto per descrivervi avvenga secondo quelle che sono al momento le vostre proiezioni mentali riguardo al futuro prossimo, magari riguardo al futuro tout court, prendetevi la libertà di immaginarvi il tutto come meglio volete, con teche di plexiglas, tute di lattice e scafandri da palombaro, non importa, non è questo l’oggetto del mio narrare, non è importante.

Torno al racconto.

Siete a Roma, e Roma non è la vostra città.

Alzo di nuovo la mano, amico carabiniere di Roma, non sto parlando di te, prova a essere elastico, e se non ci riesci fingi che io sia il tuo tenente, obbedisci all’ordine, non sei di Roma, ma sei a Roma, amico, dico sempre a te, se hai un conoscente che ti vuole bene fatti spiegare la piccola differenza, non è difficile, quindi siete a Roma, ma non siete di Roma, dicevo, avete fame, andate a un ristorante.

Dove vi trovate, e so che questo può suonare strano, quasi fantascientifico, non ci sono tanti ristoranti, anzi, ce n’è solo uno. Entrate quindi in quel ristorante. Grazie al cazzo, dirà qualcuno, esatto, grazie al cazzo.

È pieno, fatto che potrebbe indurvi a pensare che sia un buon ristorante, ma magari è così solo perché è il solo in zona, vallo a sapere. La gente sembra contenta, questo invece è decisamente un buon segno.

Vi sedete al tavolo che il cameriere, gentile, vi indica.

Vorreste chiedere la carta del menu, ma non lo fate. Non per la faccenda dei menu digitali che il Coronavirus renderà obbligatori, ripeto, o siete nel passato o siete nel futuro, comunque sta cosa del Coronavirus non fa parte dell’immaginario, non è presente in questo racconto se non per vostra scelta, se cioè ve lo state raccontando secondo i vostri parametri, cioè voi siete lì bardati come un blockbuster o il tizio ammanettato al soffitto vestito di lattice dentro lo scantinato di Marcellus Wallace, quello che Bruce Willis libera troppo tardi in Pulp Fiction e che dice la frase “chiamerò due tizi strafatti di crack armati di pinze e saldatori”, beh, prendete per buona la faccenda del menu digitale, fate come cazzo volete, insomma, io ce la sto mettendo tutta ma non faccio miracoli.

Vorreste quindi chiedere la carta del menu, ma non lo fate.

Guardate il cameriere e dite a lui di portarvi quello che è il piatto che sanno fare meglio, la specialità della casa.

Non avete intolleranze, allergie, e più in generale siete sempre curiosi di mangiare le specialità della casa.

Siete in un ristorante di Roma, magari, pensate, vi porterà la Gricia o la Cacio e Pepe, al limite la Carbonare. Comunque qualcosa di buono, molto buono, l’ultima volta che sono stato a Roma, pochi giorni prima di iniziare questa cazzo di dieta che sto facendo da un anno e mezzo, ho mangiato praticamente solo questo, Gricia, Cacio e Pepe, Carbonara, Cacio e Pepe, Gricia, in loop. Sareste anche tentati dal chiedere al cameriere se usano il guanciale e il pecorino romano, così, tanto per fare discussione, sapendo che con buona probabilità vi manderebbe a cagare, del resto dopo tutti questi mesi in cui avete passato il tempo a litigare online e a gettare veleno sui social, un sano vaffanculo a voce vi manca, ma all’ultimo tergiversate e lasciate perdere, il Coronavirus non è parte di questo racconto, ripeto, tergiversate e aspettate che arrivi il vostro pranzo.

Nel mentre non succede niente. Non ho lavorato a questo passaggio. Siete sovrappensiero, mettiamola così.

Passano i minuti mentre siete con lo sguardo fisso nel vuoto.

Arriva il cameriere.

Alzo la mano, attenzione, siamo in zona metaforica.

Arriva il cameriere, il piatto poggiato sulla mano destra con quell’eleganza che solo i camerieri sanno avere quando camminano con un piatto in mano. Una sorta di danza senza musica, coreografata da uno bravo.

Arriva e vi pone davanti il piatto che ha scelto per voi, quello che dovrebbe essere il piatto della casa, il solo ristorante che c’è in zona, per altro pieno per quanto possa essere pieno un ristorante nel vostro immaginario oggi.

Siete quindi lì, il piatto che il cameriere vi ha messo davanti, gli altri avventori del ristorante ai loro tavoli. Non avete controllato cosa stessero mangiando, magari al momento il non averlo fatto potrebbe risultarvi un errore fatale, ma come si dice in questi casi, dopo sono buoni tutti. Avete visto che erano felici, ma non cosa stessero mangiando, è un racconto, mica un fatto realmente accaduto, se mai vi venisse da alzare il ditino per sottolineare come questa possa essere una incongruenza ricordatevi che vi siete fatti bastare il tizio che spostava l’asse terrestre col solo atto di girare un timone su Lost, non cagatemi troppo il cazzo.
Davanti a voi, infatti, c’è un piatto fumante di merda.

Non in senso metaforico, attenzione, è proprio un piatto pieno di merda appena cagata, fumante in senso letterale.

Ora, so che alcuni di voi faticheranno a capire perché dico “non in senso metaforico” in un racconto che è stato dichiarato in esergo, che per i carabinieri in sala significa all’inizio, come metaforico, ma anche qui, non fatevi troppe domande, dai.

Una metafora è una metafora, non ci piove.

Se però il racconto che fate è metaforico, cioè chi lo sta narrando sta usando una trama per dirvi in realtà altro, come in certe favole o parabole evangeliche, e lungi da me il voler equiparare favole e parabole evangeliche, lo dico a beneficio di chi ritiene assolutamente migliori le prime o le seconde, se però il racconto che fate è metaforico, può capitare che al suo interno ci siano passaggi letterari e magari anche passaggi metaforici, per dire, mentre scrivevo “un piatto fumante di merda” avrei potuto voler dire “un piatto decisamente di scarsa qualità” o “un piatto schifoso”, ma invece no, sto scrivendo un racconto metaforico e al suo interno ho usato un’espressione ambigua, un piatto fumante di merda, nella sua accezione letteraria, un piatto fumante di merda.

Quindi, ripeto, davanti a voi, infatti, c’è un piatto fumante di merda. Non in senso metaforico, attenzione, è proprio un piatto pieno di merda appena cagata, fumante in senso letterale.

Fine dell’inciso.

Restate basiti.

Agghiacciati.

Impietriti.

Guardate il piatto. Poi guardate il cameriere, che compiaciuto ve lo ha posto davanti e compiaciuto vi sta dicendo “Buon appetito, abbiamo scelto per voi un bel piatto fumante di merda”.

Lo fate tre o quattro volte, lo stesso movimento.

Piatto, cameriere, piatto, cameriere, piatto, cameriere.

Vi guardate anche intorno, per cercare di capire se gli altri siano impietriti come voi. È a questo punto che vi accorgete che anche in altri tavoli i commensali hanno davanti piatti fumanti di merda. Alcuni intatti, pochi, altri quasi finiti. Altri, va detto, hanno la famosa Gricia, qualcuno una coda alla vaccinara, un abbacchietto in sugo.

Nessuno sta guardando verso di voi, fatto che, alzo di nuovo la mano, credo voglia lasciar intendere che quel che avete davanti non sia poi così anomalo, così strano. Magari, pensate, ma è un attimo, siete in uno di quei locali strani, tipo La Parolaccia, il ristorante famoso perché i camerieri vi trattano, questo è un uso metaforico, di merda, insultandovi davanti a tutti, ma se esistesse un ristorante a Roma, o in qualsiasi altra parte di Italia, nel quale si mangia merda lo avreste saputo, ne avreste letto sicuramente da qualche parte.

Invece niente.

Siccome però non vi sembra normale, affatto, alzate la voce.

Scansate il piatto, con gesto anche un po’ violento, stando attenti a non farlo cadere per evitare che gli schizzi vi arrivino contro, ci mancherebbe anche di dover poi andare in giro per Roma con la merda sulla camicia, ma comunque con gesto perentorio, del resto che sia merda è evidente anche per la puzza che emana, averlo un po’ più lontano non può che portarvi un minimo beneficio.

A questo punto mi tocca di fermarmi di nuovo. Andando da un’altra parte per qualche riga, molte righe, forse, sono logorroico e massimalista, lo sapete, e lo sono anche in maniera fastidiosa, compiaciuta.

C’è però il fatto che parlare di merda a tavola potrebbe dar adito a uno di quei discorsi scivolosi che porterebbero a parlare di coprofagia, cioè quella pratica credo non troppo in uso, siccome non ne sono seguace aggiungo con un po’ di distacco, spero non troppo in uso, di mangiare la merda. Solitamente scrivo di musica, lungi da me il voler alludere a chicchessia nel mio settore, tutti avranno sentito o letto storie a riguardo, visto meme, attinto al mare magnum delle leggende metropolitane, ma non è questo il motivo di questa pausa nel racconto metaforico. Solo che, se si usa la merda come metafora, o il dover mangiare merda come metafora, lo si deve fare  dando per assodato che stiamo tutti dalla stessa parte, cioè tra quanti ritengono che il mangiare merda sia una cosa riprovevole, o comunque schifosa. Al limite, ma siamo già quasi fuori dall’uso metaforico della merda, qualcosa che non fareste mai, fatto che sottintende che lo avete fatto ma non vi è piaciuto.

Ne ho scritto in passato, non ricordo dove né ricordo perché, ma io parto dal presupposto che nella nostra società mangiare merda non sia illegale, servirla al ristorante ovviamente sì, ma sia comunque considerato qualcosa di socialmente non accettato, una perversione.

Non dico questo lasciandomi andare a moralismi, non ho detto per me, ho detto per la nostra società, quindi facendo riferimento a quel comune sentire che governa le regole di comportamento della società medesima. Per me, ma questo è un inciso nell’inciso, la merda è merda, non mi è mai passato per la testa di mangiarla e di conseguenza non l’ho mai fatto né, credo, mai lo farò.

Torno al comune sentire.

Faccio un esempio, e questo immagino potrebbe risultare di facile comprensione anche a chi, fin qui, ha dovuto far ricorso al segnale della mano alzata, salutiamo il brigadiere.

Siete tra quanti mangiano merda. Vi piace. Non voglio sapere come vi è venuto in mente, un giorno, di assaggiarla, non mi interessa. Lo avete fatto e vi piace. Lo fate abitualmente, o magari ogni tanto. Sapete, però, che mangiare merda non viene concepito come normale nella società nella quale vivete, la stessa nella quale vivo io. Per cui tenete questa vostra passione, passione che, ripeto, per la società è una perversione, per voi. Per dire, se siete a cena a casa vostra con amici, amici che però non hanno questa stessa vostra passione, o che comunque non sapete se hanno questa vostra stessa passione, non portate in tavola una terrina piena di merda fumante, perché sapete bene che gli amici non capirebbero e che, con buona probabilità, vi guarderebbero esterrefatti, andandosene. Anche se buoni amici, lo sapete, probabilmente racconterebbero a altri di questa vostra insana, sì, perché un po’ insana è, sappiatelo, passione, dando vita a una di quelle voci come quella cui facevo riferimento prima, nota nell’ambiente della musica. Oh, magari resterebbero tutti e ne mangerebbero, felici, ma credo sia una ipotesi rara, improbabile.

Mangiate merda, magari, faccio sempre riferimento a quanto gira nell’ambiente della musica, anche se avevo detto non lo avrei fatto, ricorrete a qualcuno che si troverà a mangiare determinati cibi proprio per aromatizzare la merda che mangerete, e so che avendo scritto questa cosa vi avrò davvero infastidito, avrò cioè sortito esattamente l’effetto che volevo al fine di rendere poi il mio racconto metaforico ancora più efficace, anche se al momento ho solo il vostro fastidio da gestire, il rischio che molliate la lettura qui, a portata di mano. Vi piace mangiare la merda ma lo tenete per voi, perché la società mal vi giudicherebbe. Lo sapete. È un dato di fatto. Ciò nondimeno la mangiate, ci mancherebbe altro, ognuno ha i propri gusti. Ma non potete dar per scontato che agli altri piaccia la merda, non funziona così, anzi, è universalmente ritenuto che la merda faccia schifo, oltre che sia un filo pericolosa.

Se uno dice, metaforicamente, ho mangiato la merda, infatti, fa riferimento a qualcosa di sgradevole, schifoso, ributtante. Funziona così. Certo, esiste la ficcante battuta “mangiate merda, cento miliardi di mosche non possono sbagliare,” ma proprio sul paradosso del mangiare qualcosa di schifoso fa gioco.

A questo punto qualcuno potrebbe spostare il discorso, lessicale, su altri esempi che potrebbero far cadere questa tesi, come quella del verso “farsi inculare”, per dire. Nel senso, si usa questo modo di dire, “fatti inculare”, da cui deriva appunto il noto “vaffanculo”, per indicare qualcosa di poco piacevole. Ma, senza entrare nello specifico, il sesso anale è praticato con meno reticenza di quanto non si faccia col mangiare la merda. Certo, trattandosi della sfera sessuale non se ne fa manifesto o bandiera, ma a parte certi antichi retaggi, per altro aggirati già in epoche antiche, parlare di sesso anale con valenza spregiativa, oggi, sarebbe andare a pescare in un lago dentro il quale stanno facendo il bagno in molti. Ciò non di meno si dice fanculo o fatti inculare per insultare qualcuno, magari anche qualcuno che si fa inculare e che però si offenderà ugualmente. Mi sa che mi sono infilato in un tunnel senza uscita, il che parlando di sesso anale fa sorridere. Mi fermo e aspetto che passi la nottata. Anzi, torno sui miei passi, fate finta io non abbia mai iniziato questo discorso. Fate del vostro culo o del culo del vostro partner quel che volete, voi e il vostro partner, uso il maschile per indicare un partner generico, attenzione, ci mancherebbe pure altro. Altrimenti vaffanculo.

Mangiare merda non va invece bene, punto.

Torno al racconto metaforico.

Siete ancora seduti lì, al vostro tavolo in quel ristorante romano dove pensavate di mangiare la Gricia e invece vi hanno portato un piatto fumante di merda.

Scansate il piatto, guardate con odio il cameriere e urlate: “Ma questa è merda, e che cazzo!!!”

Avete visto che altri hanno mangiato merda, che altri hanno davanti piatti di merda, ma contate su tutti gli altri avventori, e magari anche su un mai sopito senso del buongusto per scatenare una qualche rivolta, una solidale levata di scudi, ma più nello specifico volete che il cameriere prenda quel piatto e lo porti via, possibilmente dopo avervi implorato perdono e avervi promesso qualcosa, che non sapete bene cosa potrebbe essere, difficilmente mangereste la Gricia, ve la portasse ora, ma questo è il tallone d’Achille di questo racconto metaforico, meglio non addentrarci in questo sentiero.

Ma questa è merda, e che cazzo!!!” urlate, guardandovi intorno, attonito e incazzato.

A questo punto succede però l’imprevedibile, quello cioè che rende questo racconto metaforico un racconto con una morale, e che in tutti i casi mi concede il lusso di avviarmi a larghe falcate verso il gran finale, che fatica, comunque, mannaggia a me.

Gli altri avventori, infatti, tutti, anche quelli che hanno la merda davanti alla faccia, seppur con maggior enfasi gli altri, alzano a loro volta la voce, ma contro di voi.

“Voi che alternative proponete?”, dice qualcuno.

“Se c’era il precedente gestore state certi che ci avrebbe anche pisciato dentro”, dicono quelli che hanno appena finito di mangiare il loro piatto di merda, facendo anche la scarpetta col pane.

“Sicuro che voi avreste saputo fare di meglio, vero?” dicono altri.

“Aprite voi un ristorante, se siete capaci”, dicono quelli che stanno terminando di mangiarsi la coda alla vaccinara.

Tutti comunque vi danno contro, compatti, monolitici.

Il cameriere non fa una piega, giusto un sorriso con la piega della bocca, inchinando un po’ la testa.

Finisce il racconto metaforico.

Manca la chiusa, è vero.

Manca, cioè, la frase a effetto che renda il tutto dotato di una morale, veicoli il messaggio sotteso che questo mio parlare di merda servita al ristorante vuole evidentemente portare con sé.

Arriva, pazientate ancora qualche riga.

Quanto avete letto, questa piccola novella sotto forma di novella, in un contesto, il mio diario del contagio, che proprio dalle novelle decameroniane diceva di voler partire, ma che nei fatti non ha quasi mai preso le mosse da quel genere letterario, sempre che si possa definire davvero novella il racconto di voi che andate al ristorante, vi portano la merda e gli altri avventori se la prendono con voi che dite che vi hanno portato la merda, quanto avete letto, quindi, può essere applicata a più piani di lettura. Non perché io sia un cazzo di genio della letteratura, e io sono un cazzo di genio della letteratura, non credo serva specificarlo, ma perché certi semplici concetti sono applicabili a più contesti. Per dire, se dici “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire” puoi farlo sia che tu stia parlando di ragazzini scapestrati che ripetono con costanza sempre gli stessi errori nonostante i genitori glieli rinfaccino con altrettanta pervicace costanza, sia che tu voglia stigmatizzare la miopia di chi continua a votare un partito che nel tempo ha tradito le aspettative, per questo una semplice figura retorica come quella è divenuta di uso comune.

Per venire a noi, potete quindi applicare la faccenda del trovarsi di fronte un piatto fumante di merda al mio mestiere, quindi alla critica musicale, pensando che io stia parlando del semplice concetto che se la discografia propone dischi di merda non sono io da accusare perché dico che la discografia propone dischi di merda, è da accusare la discografia che appunto proporre dischi di merda. Non fa una piega, direi. Anche perché, torniamo all’inciso sul chi ama mangiare merda, chi ama mangiare merda ben sa che socialmente non è cosa ritenuta normale, quindi la mangia e se ne sta zitto, lo fa clandestinamente, perché mai la discografia e gli amanti della merda musicale dovrebbero pensare che io non denunci la nuova moda della merda in discografia, arrivando addirittura a farne vanto?

Potete, però, applicare la faccenda del trovarsi di fronte a un piatto fumante di merda più in generale, andando quindi fuori dal mondo della musica e guardando quindi all’attualità, il Coronavirus e come lo si sta affrontando a livello nazionale a divenire protagonisti.

Vivo in Italia, mi trovo questo governo, parlo del governo nazionale, certo, e di quello regionale, peggio ancora, e anche di quello cittadino. Sono loro, i vari governi, che mi mettono il loro piatto fumante di merda davanti alla faccia, penso alle soluzione in termini di aiuti economici, ai protocolli o sedicenti tali sanitari, più in generale a quanto viene mensilmente detto negli ormai tristemente noti decreti del presidente del consiglio dei ministri, da se medesimo presentati nelle ormai abitudinarie conferenze stampa a reti unificate, piatti fumanti di merda, appunto, e se io lo sottolineo, che sono piatti fumanti di merda, star lì a chiedermi che soluzioni ho, o a dirmi che ci fossero stati Salvini e la Meloni sarebbe stato peggio, probabile, ma nel mondo dei “se e dei ma”, o ironizzare sul fatto che io non sarei stato capace di fare di meglio, o addirittura di buttarmi in politica per dimostrare il mio valore, è inutile.

La merda resta merda, dirlo è un atto semplice di cronaca, denunciarlo, penso, parte dei miei diritti costituzionali al dissenso, comunque meglio, forse, che scendere in strada con un mitra e andare a fare giustizia sommaria di questi incapaci, fatto che non mi sorprenderò mai abbastanza non è ancora inspiegabilmente successo.

Non ho soluzioni, non sta a me averne.

Non ci sono Salvini e la Meloni, ipotizzare, sicuramente a ragione che avrebbero fatto peggio non trasforma la merda in cioccolata.

Non ci sono neanche io, a governare, potrei fare meglio, dubito, o quasi sicuramente avrei fatto peggio, ma la merda resta sempre merda.

Non voglio fare politica, faccio già un lavoro, lo faccio bene, la merda etc etc.

Che si parli quindi di critica musicale o di cronaca la morale è sempre quella, e so che se citassi ora la merenda con Girella vi proietterei tutti in un passato lontano, rassicurante, magari anche con qualche sfumatura inquietante, alla Stranger Things, certo, ma comunque sicuramente meno pericolo del presente, purtroppo non è così che andrà, che si parli quindi di critica musicale o di cronaca la morale è sempre quella, se vi piace mangiare la merda mangiate la merda, ma smettetela di rompere il cazzo a chi, come me, dice che quella è merda.

Risate, amare.

Mano che si alza.

Altre risate, in ritardo.

Risate più forti di chi aveva riso subito.

Applausi.

Fine.