Vi racconto di cani e porci, come quando ho sfidato Guido Conti a uccidere un maiale a pugni

Non me ne vogliano i miei amici animalisti e quelli vegani, ma tanto non è la prima volta e non sarà l'ultima


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Non ho scritto nulla, qui, della faccenda di come Conte e il suo Governo, sempre loro, le solite merde, stiano trattando la cultura.

O meglio, di come non la stiano trattando, non pervenuta, zero carbonella.

Perché, questo ormai lo sanno tutti, Conte durante la sua conferenza stampa di presentazione del Decreto Rilancio, poco meno di una settimana fa, ancora una volta, per altro, un decreto d’urgenza che arriva tardi, viene presentato di corsa, e poi viene pubblicato giorni dopo, mah, Conte durante la sua conferenza stampa di presentazione del Decreto Rilancio ha detto quell’infelice frase dell’occhio di riguardo per “gli amici artisti che ci fanno divertire e appassionare”, frase infelice e per altro scritta, seppur poi pronunciata con quei chiari segni di afasia che il Brian Ferry di Foggia ha disseminato per tutta la mezz’ora e passa di discorso urbi et orbi.

Un modo sbagliato di descrivere gli artisti?

Forse.

Anzi, di sicuro.

Non è questo l’importante, nel senso, chi cazzo se ne frega come l’avvocato in questione considera gli artisti, se come latori di cultura, appunto, o saltimbanchi che ci fanno sorridere.

Sicuramente una frase infelice per almeno due motivi seri, forse tre, però, affatto divertenti, primo perché consolida il comune sentire che vuole chiunque lavori nel campo dell’arte, e poi sarebbe curioso capire cosa si intende per artisti, ma apriremmo un discorso davvero troppo ampio, che non ho la forza per affrontare, che chi lavora nel mondo dell’arte, in realtà, non faccia un cazzo, e quei sette giorni sufficienti per poter accedere al bonus ne è in effetti riprova, poco conta se si è reso necessario abbassare quel numero per i noti motivi, molti lavorano a chiamata, moltissimi in nero, per non dire dei tanti, tantissimi che fanno parte di cooperative, e che quindi la partita Iva neanche ce l’hanno, un po’ perché, e qui scivoliamo nel campo dell’esoterico, però, sentendosi in dovere di dare una definizione della categoria, cosa che non ha fatto per nessuna altra categoria, per intendersi, non ha parlato dei calciatori, che invece ha citato in ogni sua conferenza stampa, come “gli amici calciatori che corrono scalmanati dietro a un pallone e ci fanno tanto esultare”, o non ha detto degli imprenditori “gli amici imprenditori, che puntano al profitto cercando tutti i modi per incularci con i loro prodotti di cui novanta volte su cento non abbiamo bisogno”, ha in qualche modo annesso al campo cultura, la parola cultura è stata citata proprio in partenza di questo triste siparietto di Conte, solo gli artisti che ci fanno divertire e appassionare, escludendo un po’ tutti gli altri, gli scrittori, i poeti, i pittori, gli scultori, i danzatori, i coreografi, insomma, dai, non state qui a farmi citare tutte le categorie, per chiudere, terza parte di tre, con la constatazione poco amichevole di quanto non contino un cazzo le associazioni di categoria che operano nel mondo della cultura e dello spettacolo, con Conte che ha sostanzialmente chinato il capo di fronte a tutti, i distanziamenti sociali previsti inizialmente che si sono dimezzati per andare incontro a ristoratori e gestori di lidi, per fare un esempio, ma nessuna concessione a artisti e saltimbanchi, non sia mai. Ma ci si è concentrati più su quelle parole infelici, ci sta, la comunicazione serve anche a quello. Aristi che ci fanno divertire e appassionare. Facce ride, aò. Facce Tarzan, ammericano. E anche parlando di cantanti e attori, sempre per dire, siamo sicuri che un Carmelo Bene sarebbe rientrato in una delle due definizioni? O un Nick Cave? Mah.

Ne ho scritto sui social, ovviamente, perché in questi giorni di clausura è sui social che mi azzuffo con gli altri, trasformando queste piattaforme nel retro dei bar nei quali Tyler Durden si picchiava a sangue con perfetti sconosciuti. Questo mio scriverne sui social è finito anche dentro Propaganda Live, un mio tweet in cui chiedevo se quel “amici artisti che ci fanno divertire” fosse in senso affettuoso come quando si dice “i nostri amici a quattro zampe”, letto da Zoro nella top 10 finale, fatto che mi ha fatto sorridere, perché ci è finito proprio la prima volta che non ho seguito Propaganda Live in questa pandemia, incastrato dentro la terza serie di La Casa di Carta e in necessità di sapere come andrà a finire, almeno quella.

Non ho quindi scritto nulla, qui, di questo passaggio della recente cronaca. O meglio, l’ho fatto ora, col solito ritardo. Ma non ho ritenuto che meritasse troppo del mio tempo, e del vostro.

In questi lunghi, lunghissimi giorni di clausura, infatti, stiamo scivolando neanche velocemente verso i novanta, oggi sono ottantasei, mi sono spesso, qualcuno potrebbe dire troppo spesso, ritrovato a parlare del passato.

Succede, quando si è in assenza di un presente, immagino.

Succede ancora di più quando si è anche in possibile assenza di futuro, ma qui finiremmo nel filosofico, e sono troppo annoiato per poter affrontare temi alti. Altissimi.

Ho quindi optato per affrontare il già accaduto, quella porzione di vita, cioè, che al massimo concede spazio alle interpretazioni, alle rivisitazioni, alle rielaborazioni, ma senza lasciare sbocchi agli imprevisti, qualcosa che è successa è successa, non è che di colpo può andare peggio di come è andata. Una forma, la mia, di tutela della mia fragile mente, potrei asserire, ma forse più semplicemente un modo come un altro per provare a passare il tempo cercando di dare un senso a quel che, per dirla con Vasco, un senso non ce l’ha. Vasco.

Per altro proprio un anno fa, di questi giorni, ero lì a fare su e giù per l’Italia, Milano, Bologna, Castellaneta Marina, Milano e via discorrendo, il mio lavoro con lui in partenza, lavoro che avrebbe visto la luce nei mesi successivi, dopo i suoi sei concerti a San Siro e dopo i due di Cagliari, anche Cagliari sarebbe stata meta dei miei spostamenti al suo seguito, un libro, Vasco Non Stop – Le Mie Emozioni da Modena Park a qui, e un film, Vasco Non Stop Live 018-019, del quale sono autore per quel che riguarda tutte le interviste, un’esperienza impegnativa, certo, ma anche intensa, appagante, la sensazione di aver fatto parte di qualcosa di grande. Qualcosa che, oggi, mi sembra lontanissima, ancora di più di quel passato che sono andato così spesso a ripescare e rivivere in questi giorni. Forse perché parte del mio passato prossimo, di quella vita, la mia, che ho vissuto fino a pochi giorni prima che arrivasse il Coronavirus.

Per dire, l’ultima volta che ho fatto benzina, ci pensavo anche pochi giorni fa, è stato al mio ritorno da Sanremo, dove è andato di scena il mio show Attico Monina, con Mattia Toccaceli, i ragazzi del Team Mirò, per la regia dei The Loops, il coordinamento di Rosa Bulfaro, la produzione di Optimagazine e tutti quei tanti, tantissimi ospiti. Impossibile che sia successo tre mesi fa. Non ci credo. Sembra roba successa in un’altra dimensione, in un’altra epoca, la musica che di colpo si è fermata, la discografia seppellita, lo streaming crollato impietosamente, le radio?, morte, la trap spazzata via, l’estate imminente, quella che sarebbe dovuta essere la più splendente estate di Live della nostra storia, con i tour trionfali di Vasco, Tiziano Ferro, Cesare Cremonini, Ultimo e chi più ne ha più ne metta, annullata, anche se ancora non annullata definitivamente, questa, appunto, al considerazione di Conte per il mondo dello spettacolo, quello degli amici artisti che ci fanno divertire e appassionare, meno di zero, i tour in stallo ma non annullati, i live un enorme punto di domanda senza possibilità di risposta, non per questioni inerenti alla curva del contagio, intendiamoci, ma perché non cagate dai legislatori, nessuno che dica “quest’estate niente concerti in aree che non consentano il distanziamento sociale”, addio stadi e grandi arene come Imola o CampoVolo, per dire, niente, tenete pure le maestranze e i fan in bilico, chi se ne frega di loro. Tutto il mondo della musica è morto, al momento,  quei mentecatti dei discografici a tirare fuori, ora, singoli da ballare in spiaggia, penso a Guaranà di Elodie o altre cagate del genere, senza tenere conto del fatto che, se le cose vanno come ci stanno raccontando, in spiaggia a ballare quest’estate ci sarà stocazzo, la follia che prova a gestire la follia, la morte nera, la putrefazione, la fine assoluta della musica, intesa come filiera.

Magari risorgerà, come Cristo o sottoforma di zombie, vallo a sapere. Ma al momento è seppellita. Bye bye.

Meglio quindi guardare a un mondo lontano, precedente.

Esotico, anche.

Sappiamo tutti come sia meglio, a volte, guardare a posti lontanissimi piuttosto che concentrarci sul brutto che ci circonda, le agenzie di viaggio ci hanno fatto del bel grano, in passato, su questo semplice concetto.

Poi, ma questo è discorso diverso, non fatemi stancare troppo, e che cazzo, nei fatti potrei anche azzardare che questo mio continuo riferirvi e riferirmi a un passato anche lontano che ha me, o un me stesso rappresentato, non necessariamente vero, già ho sviscerato questo argomento, come protagonista sia anche un tentativo, vedete voi se vano, di allestire una sorta di metaromanzo di formazione, cioè un romanzo contenuto dentro un diario, sottotrama di una trama di suo immobile, la clausura non è che consentisse gran movimento e azione, che però ha concesso all’autore, che poi sarei io, di ampliare l’universo narrativo a tutta una serie di accadimenti e sviluppi, per altro, come fosse antani.

Non ne esco, scusate. So che c’è una logica, ma al momento non riesco a metterlo nero su bianco.

Ho parlato di questi giorni, è un fatto, ma ho parlato anche di ieri, l’altroieri e l’altroieri ancora, finendo a rimuginare nei miei cassetti dei ricordi, più o meno veri. Sono passato, non dovrei dirlo, ma chi cazzo se ne frega, sarete storditi tanto quanto me e proprio l’altro giorno vi siete ritrovati a chattare nostalgici con un vostro compagno di scuola che vi stava sul cazzo già all’epoca, non state qui a farmi la morale, dal pormi come un critico musicale che viene dal mondo dei libri al pormi come uno scrittore che ha flirtato e flirta col mondo della musica, per quanto, flirtarci oggi, stando a quanto detto prima, fa di me quanto di più vicino a un necrofilo mi possa venire in mente.

Meglio quindi continuare a guardarmi indietro, anche perché il concetto di arte e di cultura, quello che Conte ha schernito con le sue parole afasiche e da imbonitore da televisione di quartiere, in fondo mi è sempre stato piuttosto a cuore, anche quando ero poco più che un ragazzo da poco arrivato a Milano.

Racconto una storia che ho già raccontato, anche io, in fondo, ho i miei canoni, testati.

Verso la fine dello scorso millennio, quando cioè il Novecento, secolo nel quale sono nato, e credo sia nato buona parte di voi che leggete, e nel quale mi sono formato, stava per chiudere i battenti, ho preso parte a una sorta di stati generali della letteratura italiana. Qualcosa di impegnativo, converrete con me, ma almeno in quel caso non ero io a dover tenere a bada il mio ego, non essendone il promotore, ma semplicemente uno degli invitati. In realtà non era esattamente gli stati generali della letteratura italiana, lo ammetto. Si rivolgeva verso i più giovani, come indicazione per il futuro. Era un convengo che si sarebbe tenuto presso la sede milanese delle Edizioni Paoline, quelle di Famiglia Cristiana, perché a organizzare il tutto era la rivista letteraria Letture, promossa dall’allora suo deus ex machina, e so quanto possa suonare strano parlare di deus ex machina in sede delle edizioni paoline, ma tant’è, Ferruccio Parazzoli. Il titolo era “Arti di Passaggio. Gli Under 40 di Fronte al Nuovo Millennio”, dove per under 40 si intendeva scrittori e critici letterari under 40, verso la fine degli anni Novanta si era giovani sotto i quaranta, oggi credo si sia spostato sotto i cinquanta, la gioventù mi sta alle calcagna.

Ferruccio Parazzoli, ve ne ho parlato più volte in questo diario, è un importante scrittore italiano, a lungo impegnato in prima persona anche nell’editoria, presso la Mondadori. Quando lo conobbi, poco dopo essere arrivato a Milano, quando cioè anche io inizia a lavorare in Mondadori, mi sembrava una sorta di mix tra Obi Wan Kenobi, anche questo credo di avervi già detto, parliamo dell’Obi Wan Kenobi interpretato da Alec Guiness, ché ancora solo quelle avevamo visto al cinema, e un oscuro burocrate, sempre vestito elegante, prevalentemente con completi grigi, gli occhiali tondi che nascondevano a malapena gli occhi chiarissimi, il lei usato con tutti, indistintamente, in un ambiente lavorativo dove tutti si davano del tu. I miei genitori, per altro a loro volta parte della famiglia paolina, avevano sul comodino un libro di preghiere redatto da Parazzoli, e avevo letto un paio di suoi libri in cui si parlava della mia regione, che era anche la sua regione di origine, e di preti. Insomma, mi sembrava qualcosa di assai distante da me, non perché io non fossi marchigiano e non fossi cattolico, lo ero e lo sono ancora oggi, ma perché mi vedevo come un insurrezionalista anarchico capitato per caso dentro il palazzo che Oscar Nimeyer aveva costruito per Arnoldo Mondadori, più che come un uomo d’ufficio. Poi ho cominciato a conoscerlo, e ho scoperto che in effetti era Obi Wan Kenobi, e che aveva molte più idee insurrezionaliste di me, che avevo passato gli anni dell’università, da studente non frequentante, a leggermi l’opera omnia di Bakunin e Malatesta in biblioteca. Era lui, Parazzoli, a cui dovevo la pubblicazione del mio primo romanzo per la casa editrice di Segrate, Aironfric. A lui e all’intercessione di Valerio Evangelisti, scrittore e storico prestato alla fantascienza. Era successo che, arrivato da poco a Milano avevo pubblicato un raccontino in una antologia per ES, una collana di letteratura erotica. Durante la presentazione di quel libro, a Brera, avevo conosciuto due persone che avrebbero in qualche modo determinato il mio futuro professionale, Stefano Magagnoli e Valerio Evangelisti, appunto. Col primo, ma non lo sapevo, avrei avuto un colloquio di lavoro il giorno successivo a quella presentazione, in Mondadori, e mi avrebbe dato modo di entrare a lavorare presso quel colloquio editoriale, il secondo mi avrebbe fatto pubblicare il mio primo libro per Mondadori, primo di altri quattro, ora posso serenamente dire cinque. Magagnoli, per altro, era un viso familiare, perché all’epoca partecipava come ospite a Quelli Che il Calcio di Fazio, ma non avevo idea me lo sarei ritrovato poco dopo dall’altra parte della scrivania a offrirmi un lavoro. Non è di questo che voglio parlarvi. Evangelisti mi prese a ben volere, e girò il manoscritto di un mio romanzo inedito, Aironfric, appunto, storia di un supereroe trans obeso di titanio, al suo amico Stefano Benni, il quale mi propose di uscire per Feltrinelli, proprio mentre io avevo cominciato a lavorare per Mondadori. Ne parlai entusiasta e anche un po’ sprovveduto a Parazzoli, lì a Segrate, il quale mi bloccò, dicendomi che avrebbe voluto leggere anche lui il mio libro, prima di accettare la proposta di Benni. Me lo disse come lo direbbe chi sa che non hai modo di scegliere se assecondare o meno una determinata volontà, del resto io lavoravo per la Mondadori, mica per la Feltrinelli. Finì che pubblicai per la neonata Strade Blu della Mondodari, collana che poi avrebbe fatto il botto con Palahniuk e Michael Moore, primo italiano a pubblicare narrativa lì. A scegliermi per quella collana fu proprio Parazzoli, quello del libro di preghiere sul comodino dei miei. Benni si incazzò come una bestia, e anni dopo ci mandammo amabilmente a fanculo dentro il Barfly, locale storico della mia città.

Io e Stefano Benni, quello della Compagnia dei Celestini e di Bar Sport ci mandammo a fanculo a causa di Parazzoli, quindi. Lo stesso Parazzoli che poi mi invitò a prendere parte al convegno di Letture, e col quale scrissi poi un romanzo a sei mani, le altre due erano quelle di Giuseppe Genna, Demoni, cover dell’omonimo libro di Feodor Dostoevskij.

Parazzoli, così, nota a margine, è del 1935, un anno in più di mio padre. Stesso anno, il 1935, in cui è nato Nanni Balestrini, colui che per primo mi ha spinto verso la scrittura e ha fatto sì che io venissi identificato dalla comunità letteraria come uno scrittore. Questa faccenda dei padri letterari, poi vedremo, non è di poco conto.

Torniamo al convegno. Per partecipare io, lo stesso Giuseppe Genna, che nel mentre aveva lasciato il lavoro in Mondadori facendo causa alla casa editrice, per altro scatenando sul suo computer, lasciato acceso, un loop di pop-up di cazzi e chiavate di varia natura, lui che a differenza di quasi tutti gli altri negli anni novanta sapeva usare il web, ben lo ricordo dal momento che la sua scrivania e il suo computer spettarono a me, cazzi e chiavate in popup comprese, Genna che aveva lasciato il lavoro in Mondadori salvo poi rientrarci, in Mondadori come autore grazie a una strepitosa recensione del suo libro d’esordio da parte di Fruttero e Lucentini, Antonio Riccardi, uno dei massimi poeti della mia generazione nonché direttore degli Oscar, al momento uno dei fondatori della SEM, la Società Editoriale Milanese, Tommaso Pincio, allora un emerito sconosciuto, oggi a ragione uno degli autori più importanti della mia generazione, e Amedeo Bruccoleri, operatore culturale di cui, confesso, poi ho perso le tracce, noi tutti, Genna, Riccardi, Pincio, Bruccoleri e io decidemmo di redigere un manifesto letterario, qualcosa che suonasse come post-moderno, o, come si diceva allora, avant-pop. Lo presentammo durante il convegno, salendo sul palco in gruppo, tipo Avengers. Io sedetti anche al pianoforte, perché sul palco dell’auditorium delle Edizione Paoline c’era un piano, suonando qualcosa, forse Satie, e poi sfidai Guido Conti, scrittore parmigiano all’epoca rappresentante di una sorta di revivalismo della scrittura novecentesca che noi, col nostro manifesto, intendevamo ribaltare. Lui era un autore da Guanda, io da Strade Blu, anche se poi avrei pubblicato per Guanda, e Conti per Mondadori, sempre rappresentando poli opposti, binari atti a non correre in parallelo ma neanche a incontrarsi, mai. Lo sfidai a uccidere un maiale a pugni nudi, sapendo bene le sue origini contadine, ben visibili anche a occhio nudo, e presumendo, quindi, che quella gara l’avrebbe vinta lui, non io. Un gesto naif, il mio, che ben si sposava a quel periodo che tutti credevamo fondante, ma che in realtà è passato così, senza lasciare traccia.

Il manifesto che presentammo, a cui partecipò attivamente lo stesso Parazzoli, parlava di forma, sostanza, stile, trama e strategia. Dicevamo, tra le altre cose “Abbiamo l’impressione che, questa miriade di segni e di significati, il mondo la esprima autonomamente come se avesse elaborato, all’insaputa dei sapienti, strategie interne e modalità creative, avendo avuto cura di eliminare la mente che le pensa, le sente e le realizza. Segnale inequivocabile di queste strategie è la ricerca del divertimento, una coazione a ripetere ormai del tutto frenetica e automatica.”, che era un modo esplicito e alto per cristallizzare una modalità divenuta canone d’azione che la letteratura non poteva, a nostro avviso, non tenere in conto. “È tempo di prendere partito per una strategia creativa che sia figlia di una complicità di menti: autori plurimi, proliferazione di eteronimi, progressivo ritrarsi dell’individuo. Ciò che conta è l’opera, ciò che dice e che racconta, la sua voce provenendo da luoghi che non si incarnano in alcun preciso soggetto. I linguaggi sono sistemi espressivi che portano in sé i sogni o gli incubi di chi li utilizza. Pensiamo a linguaggi che entrino in contatto con molti e diversi tempi, tutti contemporanei. Useremo linguaggi falsi, porosi, simili, ma non identici, alla flattanza linguistica che invade le case e le menti.” Progeguivamo poi con un passo che negli anni avrei negato fino al parossismo: “Non è più tempo per lo stile. Non è prioritario agire sui linguaggi quanto lo è agire sulle strutture, sugli intrecci, sulle chiavi che aprono e chiudono i cassetti delle storie. Lavoriamo anzitutto a intrecci che ci permettano di dare vita a un’opera più grande di quanto noi stessi possiamo immaginare. Strutture complesse, spesso giocate sugli equilibri interni, porzioni di opere che si richiamano a distanza, personaggi e tempi in assoluta libertà di allontanamento e avvicinamento, spariscono per poi ritornare, il diritto e il rovescio del binocolo.”

Io, che avevo esordito mutuando lo stile dalla poesia di Nanni Balestrini e mashuppandola, che brutto termine, Dio mi perdoni, con il rap, rinnegavo in qualche modo lo stile fine a se stesso, in virtù della madre trama. “Guardiamo all’allegoria come strumento privilegiato. Sfruttiamo il piacere che dà l’allegoria. L’allegoria non parla soltanto del mondo e non allude soltanto a un eterno presente, essa parla anche della morte e della fine del mondo. L’allegoria allude a qualcosa di segreto, che cerca non di portare alla luce, ma di nascondere meglio, perché sia viva la sensazione che qualcosa può esistere anche senza che venga totalmente spiegato.

Su un fatto però, ero e sono tutt’ora d’accordo, sull’utilizzo della prima persona singolare, inteso come soggetto, non come autobiografica adesione alla narrazione. “Il soggetto, il famigerato io alla cui dissoluzione la modernità ha lavorato con instancabile alacrità, torna a essere personaggio, ha acquistato un nuovo senso, significa “uomo” e, allo stesso tempo e con la medesima intensità, significa veramente “io”.

Anticipavamo poi, succede anche a chi genio non è, il discorso sull’ironia divenuto leggendario di David Foster Wallace, seppur con altre parole. “All’ironia sostituiamo il grottesco, il paradossale. Un genere storicamente sospetto. Posto che la bellezza debba essere intesa come mutazione del felice, chi oggi è in grado di indicarci un uomo felice? Chiunque dipenda da Qualcuno o da Qualcosa, senza sapere da Chi o da Cosa, come tutti noi dipendiamo, deve pure avere un’arma con cui tenere a bada il padrone: rettitudine, sincerità, mala lingua, congiure, dicerie, scambi di binari, false rotte stellari.

La chiusura, lo riconosco ai miei colleghi, che hanno redatto il manifesto evidentemente con più convinzione di me, con due frasi epiche, da slogan urlato in piazza: “Vogliamo un celebre anonimato. Vogliamo dire e fare tutto.

Vogliamo Tutto, per altro, è il titolo del romanzo di Nanni Balestrini che mi ha spinto più di ogni altro libro a cominciare a scrivere, al punto che la mia ultima opera, la raccolta dei miei primi tre romanzi, è appena riuscita in un unico tomo col balestriniano titolo Avrei Voluto Tutto. Ma questi sono dettagli.

Non è invece un dettaglio che passati venti anni, ormai venti anni e mezzo, da quando quel manifesto venne scritto, passati cioè venti anni e mezzo da quando il nuovo millennio bussava alle porte, con il bug lì a fare da spauracchio, con il ponte di Norman Foster a tremare sul Tamigi, mi ritrovo qui a parlare a voce alta di come, col tempo, abbia assunto nei confronti dello stile un atteggiamento completamente diverso, decisamente più massimalista, come per un rimpianto di quel post-moderno che il manifesto fermava sulla pagina, in qualche modo datandolo e decretandone la presunta fine, fine che poi era appunto solo presunta, se oggi siamo qui a guardare attoniti all’ipermodernismo con lo sguardo di chi non può che rimpiangere quando in apparenza si stava peggio.

Oggi posso dire che credo fermamente che la forma sia sostanza. Lo ripeto spesso, del resto, come un mantra, o come fa un matto.

Chi mi legge, penso, ben lo sappia.

Lo stile magari non sarà tutto, ma è molto, e veicola altrettanti messaggi di quanti non si possano veicolare in maniera più neutra semplicemente raccontandoli.

Resta comunque che io ho sfidato Guido Conti a uccidere un maiale a pugni, Daniela Martani se ne farà una ragione, e il raccontare questo episodio, ripeto, non è la prima volta, in un capitolo, l’ottantaseiesimo di questo diario del contagio, nel quale sono partito raccontandovi come Zoro abbia citato il mio tweet sugli “amici a quattro zampe”, converrete, mi regala una chiusa decisamente poco originale, già per altro citata nel titolo: oggi ho parlato di cani e porci.

Sono stanco, ripeto, abbiate pietà di me, sono giorni difficili passati in ostaggio della Azzolina, didattica a distanza di merda, e di Pregliasco, la scienza ormai credibile quanto la tizia che ti legge le carte su TeleCapri.

Andrà tutto bene un cazzo.