Blade Runner 2049, convince il sequel di Denis Villeneuve del cult di Ridley Scott

Alle 21.20 su Rai Tre c’è il film con Ryan Gosling ed Harrison Ford. Il regista Villeneuve firma un’opera autonoma, intima e filosofica. E riflette sul cinema hollywoodiano di oggi. Che tra remake, reboot, spin-off, sequel, produce replicanti in serie

Blade Runner 2049

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Possono dormire sonni tranquilli i fan di Dune, la nuova versione cinematografica del romanzo fantascientifico di Frank Herbert è in buone mani. Quelle dell’eclettico regista canadese Denis Villeneuve, che col suo ultimo dittico sci-fi Arrival e Blade Runner 2049 ha dimostrato di essere a suo agio col genere e di possedere una visionarietà magniloquente all’altezza di quell’ambizioso universo narrativo. E che nel caso di Blade Runner 2049, è riuscito anche a porsi in dialogo con la versione cinematografica che l’ha preceduto, rispettando l’originale da una posizione non di subalternità, ma di completa autonomia espressiva.

L’originale, ovviamente, è Blade Runner, il cult movie di Ridley Scott tratto dal romanzo di Philip Dick Il Cacciatore Di Androidi, un film che ha imposto le basi inaggirabili dell’immaginario distopico e cyberpunk di tutto il cinema a venire. La filiazione è dichiarata, evidente nella presenza sia di Scott in qualità di produttore esecutivo che dello sceneggiatore storico Hampton Fancher, coadiuvato qui da Michael Green. E sono tanti gli elementi, l’uso delle musiche (notevole il lavoro di Benjamin Wallfisch e Hans Zimmer), personaggi che ritornano, cripto-citazioni mai pedanti, che sottolineano la connessione col testo canonico da cui è germinato il nuovo film.

Blade Runner 2049 è un sequel, ma per certi versi è anche un remake o una intelligente variazione sul film di Scott (tra l’altro un’opera che, nelle sue svariate versioni e director’s cut successive ha finito per diventare un remake di sé stesso). La storia è simile: sono passati trent’anni dal 2019 in cui era ambientato Blade Runner, ritroviamo la stessa Los Angeles notturna, mortifera, brulicante di gente che s’intuisce disperata e giganteschi ologrammi che promettono consumi e un’ingannevole felicità. In questo scenario si muove un altro cacciatore di replicanti – replicante a sua volta – dal nome kafkiano di agente K (Ryan Gosling). Il suo compito è scovare gli ultimi esemplari “difettosi” di vecchia generazione che s’erano ribellati al loro destino di macchine al servizio dell’uomo.

L’ultima missione, la soppressione dell’androide Sapper (Dave Bautista), lo pone davanti a una sconvolgente rivelazione: è possibile che esista un replicante non creato in laboratorio ma partorito. Nel frattempo alla sua mente affiorano memorie che lui non sa se reali o impiantate – agli androidi viene fornito un set di ricordi per dare loro l’illusione di possedere una storia “personale” –, il che gli crea dubbi sul passato e la propria identità. Così s’incammina lungo le tracce d’una storia vecchia di trent’anni e d’un altro cacciatore di replicanti, Rick Deckard (ovviamente Harrison Ford), per trovare risposta alle sue inquietudini.

Come già in Arrival, la curvatura del racconto è apertamente filosofica, accentuata da uno stile che all’azione predilige una lentezza meditativa e un’impaginazione visiva fatta di ambienti sconfinati, dalle dominanti di colore nettissime (insostituibile l’apporto del direttore della fotografia Roger Deakins), che dànno agli spazi una consistenza quasi astratta, che tende inequivocabilmente, a proposito di riferimenti filosofici, al sublime. Il racconto è pieno di interrogativi sui misteri della natura umana, la nascita, l’identità, la spiritualità – un replicante partorito possiede un’anima? –, in questo più in linea con le ambizioni metafisiche del romanzo di Dick.

In più, Blade Runner 2049 tematizza la sua natura di sequel. Cosa che diventa palese quando compare, dal primo film, il personaggio di Rachael. lLa quale non è però, come nel caso di Harrison Ford, la versione reale e invecchiata dell’attrice Sean Young, bensì una replica digitale dell’originale di trent’anni prima, che Deckard rifiuta disgustato. Villeneuve, insomma, sa che il suo film è viziato dalla stessa tara che caratterizza la logica produttiva dell’industria hollywoodiana degli ultimi vent’anni, che ha riutilizzato fino allo sfinimento i prototipi in una babele estenuante e ripetitiva di sequel, remake, reboot, spin-off. Tutti film “replicanti”, per i quali si può chiedere, come per gli androidi, se possegganno una loro autonoma identità di opere, o se siano sono soltanto congegni fabbricati ad arte per regalare un intrattenimento superficiale.

Per questo Blade Runner 2049 è pieno di copie. Ci sono gli ologrammi di Elvis Presley e Frank Sinatra che ripetono all’infinito i loro numeri, che non hanno più alcun sapore di autenticità, repliche sbiadite di un immaginario consumato da modalità di riuso e sfruttamento impietose. Il grande amore dell’agente K, poi, è un ologramma dal nome inequivocabile, Joi (Ana de Armas). Insomma un’altra macchina costruita per somministrare piacere, un prodotto acquistato con le fattezze prevedibili delle bambole fabbricate in serie.

La sostanza intorno a cui ruota Blade Runner 2049 è che tutto il cinema ormai, compreso il film di Villeneuve, è la copia consunta di qualcos’altro. Eppure la storia d’amore tra l’agente K e Joi è assai più commovente di quella di qualunque fasulla rom-com (raggiungendo vette d’insospettabile romanticismo nel più singolare rapporto sessuale mai visto al cinema). E l’agente K soffre, sanguina e sa sacrificarsi come e più di un uomo, conscio del fatto che “morire per una giusta causa è la cosa più umana che possiamo fare”. Contrariamente a ciò che pensiamo, persino i replicanti, questo il miracolo del film, possono essere generati naturalmente. Quindi posseggono un’anima. Esattamente come quei film che, deviando dalle dinamiche produttive da catena di montaggio da cui pure vengono sfornati, sanno trovare ancora storie ed emozioni autentiche da raccontare.