Zagor, Mirko Bertuccioli, è morto a Pesaro a quarantasei anni, per Coronavirus

Da oggi, per me, il Coronavirus non potrà davvero più essere solo numeri e statistiche, curve e picchi


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Sono sconvolto.

Forse oggi, non ho voglia di contare i giorni, non mi interessa, scusatemi, è il primo giorno in cui non riesco a rimanere saldo nel mio intento di rimanere calmo, lucido, non dico distaccato, non lo sono da troppi giorni, ma quantomeno in piedi.

Oggi no, crollo, sto per crollare, non reggo.

Ho appena saputo che è morto Mirko Bertuccioli, lo Zagor della band dei Camillas, e non credo di riuscire a mantenere la lucidità, almeno per oggi.

Ho passato la mattinata a litigare sui social, che è ormai uno dei pochi passatempo che mi concedo, il mio Fight Club in tempi di pace, figuriamoci ora che non posso mettere il naso fuori dalla porta se non dopo averlo infilato dentro una mascherina, perché in fondo va bene sfogarsi lì, questo ormai è Facebook, un ring, un’arena, in fondo va bene sfogarsi lì invece che farlo in casa coi familiari, alzando la voce con chi, in fondo, è in mezzo alla stessa tempesta che stiamo attraversando tutti, nel mio caso specifico, parafrasando il post che gira appunto sui social, anche nella stessa identica barca, in fondo va bene sfogarsi lì anche appunto per non mostrarsi indebolito, logorato da questo nostro perdurante stare in casa, poi proprio sui social ho letto un post che mi ha crepato il cuore, ma non me lo ha crepato per modo di dire, crepare il cuore, un modo di dire anche accattivante, a effetto, ho letteralmente sentire una fitta al cuore, di quelle che se fossi un ipocondriaco dovrei correre in ospedale, e oggi come oggi correre in ospedale perché si teme di avere un infarto è più rischioso di avere un infarto sul serio, ho provato un dolore fisico, inimmaginabile, il cuore che si crepa, il crepacuore, appunto.

Parto da lontano, perché in questo momento avrei bisogno di stordirmi con qualcosa di stordente, penso a una sbronza, ma so che non posso permettermi una sbronza, non me la permetto da almeno trent’anni e non me la permetterei mai davanti ai miei figli, specie adesso che sono impauriti da tutto quello che sentono intorno, che vedono intorno, da questo loro perdurato stare in casa senza poter uscire, quindi cerco quello stordimento nelle parole, le mie parole, sperando che dentro le parole, da sempre un mio rifugio, io riesca a provare un sollievo che so non potrò provare.

David Foster Wallace, a anche altri prima di lui, ha ben spiegato lo stretto rapporto che esiste tra le parole e la matematica. La sua letteratura è intrisa di matematica, pensate alle frasi simmetricamente rassicurante di Marcel Proust, alle metriche della poesia, agli schemi asettici di William Burroughs. Lo è anche la musica, che sulla matematica è pesantemente appoggiata, del resto, non fatemi aprire questo discorso, andatevi a leggere i trattati di Eldegardavon Bingen, piuttosto. Io ho deciso, parlo della fine degli anni ottanta, di lasciare la matematica, per la precisione la fisica, ve l’ho raccontato proprio in queste mi pagine di diario, per sposare il mondo delle parole, pur riconoscendo un legame tra queste materie.

Ora, i numeri sono diventati in questi giorni parte preponderante del nostro rapporto con l’inspiegabile, il famoso nemico invisibile che narrativamente ci hanno spiegato essere in realtà un virus microscopico, dall’aspetto anche affascinante, volendo.

Ogni giorno sentiamo parlare di numeri, asettici, anche anomali, volendo, perché ci parlano di numeri senza spiegarceli, senza affiancare a quei numeri delle curve reali, delle dinamiche, tamponi che non sappiamo a chi vengano applicati, quante volte vengano ripetuti, percentuali sprovviste di storico reale, numeri su numeri, usati come vero distanziamento sociale, tra noi e loro, noi che vorremmo sapere, capire, loro che dovrebbero sapere e farci capire ma si nascondono dietro quei numeri, appunto.

Ogni giorno, per bocca dell’assessore al Wellfare Gallera, parlo di chi come me vive in Lombardia, quella che non è mai stata la mia terra e che giorno dopo giorno sento sempre più come una terra ostile, come non potrebbe essere altrimenti, e per bocca di Borrelli, il commercialista messo a capo della Protezione Civile, colui che nel dirci quei numeri, i contagiati, i deceduti, i guariti, i ricoverati, i ricoverati in terapia intensiva, non fa che spiegarci che si tratta di numeri assai inferiori al reale, come se dire questo, i numeri dichiarati nella ormai lugubremente celebre conferenza delle 18 sono in realtà assai meno dei numeri reali, ci sollevasse in qualche modo, forse che il saperci al momento in salute in una nazione infestata, impestata, dovrei dire, dovesse in qualche modo sollevarci, farci sentire immuni, rassicurarci, mentre invece è solo una ulteriore fonte di incertezza, di ulteriore smarrimento, di quello spaesamento psicogeografico, sto letteralmente cercando di ubriacarmi di parole, perdonatemi, di cui vi parlavo nelle scorse settimane, oggi mi sembra tutto scontornato, opaco, cupo, fuligginoso, oscuro, nero, nonostante fuori dalla finestra ci sia il sole, un sole caldo dentro un cielo terso, grazie a un vento fortissimo che, per la prima volta da settimane, mi ha fatto rivedere i monti che di solito vedo dalla finestra della mia camera da letto, monti che, nonostante l’assenza ormai totale di smog, vai a capire perché?, da settimane non vedevo più, i monti dalle finestre della mia camera da letto, quelli del lecchese, per essere precisi, in piccola parte del bergamasco, un piccolo cappello di neve sul cucuzzolo, nonostante tutto, un piccolo spiraglio in questo oscura oscurità.

I numeri, quindi, numeri che sprovvisti di parole che ce li spieghino, ma li rendano in qualche modo un poco più umani, potrebbero rimanere solo numeri, questo sì asetticamente distante dal nostro sentirci fragili, ventimila è un numero insignificante, se non lo applichiamo pedantemente al reale, se non ci associamo dei nomi, ventimila nomi, se non ci associamo delle facce, ventimila facce, ventimila vite, ventimila morti, ventimila funerali che non si sono celebrati, ventimila ultimi abbracci che i cari non hanno potuto dare, ventimila legami strappati per sempre, così senza neanche una carezza o un addio.

Numeri che ci dicono che le cose stanno apparentemente andando meglio.

Numeri che ci spiegano che le cose non stanno ancora andando bene, quando ritornano alti, inspiegabilmente alti, alti in maniera allarmante.

Numeri che ci indicano un picco, la fine di una fase, l’ipotesi di un futuro prossimo, una ripartenza sacchiana da applicare alla vita, noi che abbiamo sempre considerato Sacchi un miracolato, una versione posticcia di Rinus Michels, forse anche del colonnello Vladimir Lobanowski.

Numeri, però, solo e soltanto numeri.

Se come me vivete in Lombardia, magari, io vivo a Milano, città che i numeri ci dicono essere ancora messa piuttosto male, sotto scacco, probabilmente il Coronavirus non sarà solo un nemico invisibile, quella è una narrazione epica, inutilmente epica, vagamente fantascientifica, anche, che ci tiene chiusi in casa da troppi giorni, no, sarà il virus che ha portato qualche nostro amico o parente a star male, magari in casa, perché Borrelli quello ci sta continuando a dire, è evidente che i tanti malati in casa, quelli che non hanno avuto il tampone, magari che sono arrivati già morti in ospedale, i soccorsi arrivati troppo tardi, sono quella porzione non conteggiata di contagiati che farebbero aumentare a dismisura quei numeri, se solo qualcuno si fosse premurato di fare uno screening serio, a tappeto, o anche solo ragionato come si deve, e i loro parenti, quelli che in casa con loro vivono, e che magari vanno a lavorare, a fare la spesa, escono perché hanno i motivi più validi per farlo, sono i veri portatori sani di quel virus che per troppo tempo abbiamo sentito imputare al nemico pubblico del momento, dal runner a chi porta a pisciare il cane, o sarà, Dio non voglia, il virus che ha ucciso un nostro amico, un nostro parente, qualcuno a noi caro o che comunque conoscevamo, un nome, una faccia, una storia, una fetta di storia in comune con noi, tutto fuorché un numero, in pratica, il contrario di un numero, perché le parole, quelle che ci sono familiari, e nulla ci è più familiare dei nomi di chi ha vissuto una parte della propria vita con noi, sono esattamente il contrario dei numeri, sono parole, Cristo santo, parole.

Io conosco diverse persone che sono finite in ospedale.

Un nostro amico di famiglia, del nostro quartiere, della nostra parrocchia, è intubato da un mese, circa, migliora un po’ ogni giorno, a fatica, la moglie ci avvisa con messaggi puntuali su whatsapp, aggrappandosi a quei lievi miglioramenti raccontati con parole che giocano su sfumature a volte impercettibili, ma abbastanza percettibili da mantenerla lì, speranzosa, capace di andare avanti sapendo di non poterlo vedere, di non poterlo accarezzare, di non poterci parlare.

Un mio caro amico, mio ex direttore in un passato ormai remoto, è uscito dall’ospedale, finalmente una bella notizia, una bella notizia vera, questo mi ha scritto, dopo essere stato lì settimane, a sua volta intubato, perché il Coronavirus non è un nemico invisibile, è un virus bastardo che ti inchioda in un letto, per settimane, per mesi, a volte se sei forte, se sei fortunato, ti salvi, a volte, purtroppo no, e muori male, nel dolore fisico, da solo, senza le carezze dei tuoi cari, senza le facce dei tuoi cari, senza anche un saluto da morto, magari non nelle fosse comuni che abbiamo visto stanno facendo in America, no, ma magari in una di quelle casse che portano via sui camion dell’esercito, tutti abbiamo visto quelle immagini agghiaccianti, forse la prima volta che i numeri non sono stati più solo dei numeri, ma un dolore vero, sordo, sfinente. Conosco altri malati in casa, altri che pensano di essere stati malati in casa, la febbre alta per settimane, altri che hanno parenti ricoverati, alcuni ne hanno persi alcuni, di parenti o di amici, i numeri per me da tempo non sono numeri, ma sono le voci dei miei amici che mi raccontano quelle storie, le parole che mi raccontano quelle storie.

Poi oggi ho letto questo post, l’altro ieri quando leggerete queste parole, perché non ce la farò a finire di scrivere questa pagina oggi, già lo so, e domani dovrò cazzeggiare, provare a mettere qualche altra decina di migliaia di battute tra me e quel dolore, oggi ho letto questo post e ho per la prima volta associato la morte a una faccia conosciuta, conosciuta davvero, a una voce conosciuta, a un accento a me vicino, un modo di muoversi, delle espressioni facciali, delle canzoni, anche. Sulla pagina di Matteo B. Bianchi, infatti, ma la cosa mi è semplicemente comparsa in home su Facebook, è stato pubblicato un post che, con poche parole, di più non ne servivano, annunciavano la morte di Mirko Bertuccioli, lo Zagor dei Camillas.

Lo scrivo così, mettendo anche il suo nome d’arte, citando la sua band, perché tirare in ballo un personaggio, lo Zagor di cui sopra, è un mio ultimo tentativo di prendere le distanze con la morte, Superman è morto ma poi è risorto, ho visto l’altro giorno quella cagata della Justice League, un tentativo vano, lo so, sto capitolando, di non fare i conti con la morte reale, fisica, definitiva. Non serve, non può servire, ma lo faccio lo stesso, come di chi affrontando una prova troppo grande per lui si tiene stretto in mano un amuleto.

Mirko Bertuccioli è morto a Pesaro, a quarantasei anni, per Coronavirus.

Non uso inutili giri di parole, come “se n’è andato”, “è scomparso”, “non è più tra noi”.

No, è morto.

Mirko Bertuccioli è morto.

È morto per il Coronavirus, malattia visibile, tangibile, devastante, che oggi ha ucciso, anche qui, usiamo le parole giuste, una persona che conoscevo, cui a mio modo volevo bene, che sicuramente stimavo molto.

Ho conosciuto Mirko molti anni fa, non ricordo più quanti. L’ho conosciuto a Milano, nonostante entrambi fossimo marchigiani, io di Ancona, lui di Pesaro, città nella quale si è probabilmente ammalato, un concerto tenuto a fine gennaio, io di Ancona lui di Pesaro, città nella quale oggi, l’altro ieri quando leggerete, è morto, da oltre un mese ricoverato all’ospedale.

L’ho conosciuto perché, non ricordo più bene, ci ha presentato un amico comune, credo proprio Matteo B. Bianchi, ma potrebbe essere stato anche Giuseppe Genna, che del resto farà pubblicare a I Camillas, lui e il suo amico fraterno e socio Ruben, che nella vita si chiama Vittorio, il libro La Rivolta dello Zuccherificio, durante la finestra temporale che lo vedrà a dirigere editorialmente una collana de Il Saggiatore, credo cinque, sei anni fa, e che poi verrà coinvolto nel loro album Tennis d’Amor, quanto l’ho invidiato, all’epoca. Loro, I Camillas, sono stati, non riesco a pensarli senza Zagor, ma neanche ha senso ora pensare alla musica, non passatemi per uno che si lascia andare a sentimentalismi, stiamo parlando di una morte, e di una morte di un giovane uomo di quarantasei anni, non me ne voglia, per dire un John Prine, star del country americano scomparso a settantatré anni, lo so sto sragionando, chiedo perdono, la morte è morte, sono stordito, abbiate pietà di me.

Loro, I Camillas, sono stati una band undeground italiana, alternative, chiamatela come cazzo vi pare, purché non sia indie, perché seppur in passato hanno collaborato, vado a memoria, con un PopX o un Calcutta, tutto erano fuorché indie nell’accezione contemporanea dell’itPop, e sto di nuovo divagando, cercando quell’ubriacatura nelle mie parole che non riesco a trovare, parole ingrate che non fanno nulla per aiutarmi, io che a loro ho dedicato la mia vita, che per loro ho fatto tante rinunce, parole stronze. I Camillas, una visione poetica, finto infantile, decisamente ironica, ma di quell’ironia surreale che solo loro sapevano tirare fuori dalle parole, la musica sghemba, sporca, a suo modo punk a accompagnarle sotto, sono stati una band unica nel nostro panorama musicale, naif, sicuramente, ma di quel naif di paese, bello, che il cuore, quello stesso cuore oggi crepato, te lo facevano sussultare, ballare, ridere.

Alcuni di voi, magari, o magari no, li hanno conosciuti sempre anni fa, prima del libro con Genna, prima del disco Tennis D’Amor, quando sono arrivati in finale a Italia’s Got Talent. Un percorso assurdo, il loro lì, perché assurda era la loro musica, tanto quanto lo è stata quella degli Skiantos, per dire, ma anche quella dei CCCP, o andando all’estero degli XTC, nomi che possono sembrare fatti a caso, ma che a caso non sono stati fatti affatto. Durante il programma eseguiranno due canzoni, a loro modo diventate due hit, a volte riprese in altri programmi, non ricordo quali, sicuramente uno sportivo, le canzoni sono Il Gioco della Palla e Bisonte, entrambi geniali, malinconicamente surreali, situazioniste, assurde, bellissime. Un momento di notorietà amplificata dalla tv. Un passaggio nel mainstream portato avanti con atteggiamento naif, senza cioè farsi irretire da quel sistema di cui non hanno mai pensato né mai provato di far parte, come naif sarà il loro entrare in Colorado, attraverso la sigla scritta con Rocco Tanica.

Da quel momento, da che ci siamo conosciuti, ci siamo visti un po’ di volte, ma scritti spesso, sempre con quella lingua lì, assurda, e da quella scrittura è nata un’amicizia di penna, come quella di Charlie Brown, figlia della nostra compaesanità, sicuramente, ma anche immagino di una stima reciproca. Ne scrissi, sempre all’epoca, e questa cosa ha dato vita a un incontro che, oggi, mi sembra ancora più devastante, perché tirava in ballo Dio, e Dio in giorni come questo sembra davvero una presenza invisibile, non si legga queste mie parole come blasfeme, ma come risentite sicuramente.

Mi disse di aver letto il mio articolo, infatti, Tony Pagliuca, uno dei fondatori de Le Orme. Tony, col quale ho a lungo intrattenuto una fitta corrispondenza a distanza, prima che ci si perdesse per strada, sicuramente per colpa mia, manifestava un suo interesse verso la band, perché, mi disse, dopo aver letto il mio articolo li era andati a sentire e li trovava assai interessanti. Sulla carta, confesso, ho sempre faticato a capire cosa li potesse accomunare, tanto precisi e quasi scientifici Le Orme quanto slabbrati e storti I Camillas, ma di fatto da quel messaggio di Tony, poi diventata una telefonata, nacque un contatto, che presto ha dato vita a altro.

Tony, vado a memoria, all’epoca stava scrivendo musica religiosa, sacra, e pensava di coinvolgere in quello gli autori di Il Gioco della Palla e Bisonte, e già capite lo spiazzamento nel sentirglielo dire, e in questo frangente, forse, le parole stanno sì lenendo il mio dolore, e a loro volta Mirko e Vittorio, Zagor e Ruben, volevano coinvolgere Tony nel loro prossimo disco, Discoteca Rock. Nei fatti l’incontro si fece, da cosa nacque cosa, e di colpo l’idea di vedere nello stesso luogo, sentire nelle stesse tracce, I Camillas e Tony Pagliuca è diventata realtà, non solo una proiezione drogata di chi si è abituato da troppo tempo a giocare con le parole.

Mi hanno mandato i video, ce li ho ancora salvati da qualche parte, mentre erano in studio insieme, mi hanno mandato video quando hanno suonato insieme dal vivo, a Mestre, I Camillas e Tony Pagliuca de Le Orme, solo a dirlo c’è da provare le vertigini, farsi girare la testa, bastassero questi ricordi a far svanire il presente, non bastano mai, i ricordi, in questo.

Non ne parlo, attenzione, per spostare su di me l’attenzione mentre dovrei parlare di un artista e un amico, uso forse indegnamente questa parola, scomparso, ma perché ho bisogno di pensare a qualcosa di bello, di unico, di abbastanza grande da cacciare, almeno per un po’, in un angolo l’angoscia, il dolore, perché poi dovrò tornare di là, dai miei quattro figli, e provare a far finta di niente, così va fatto, lo so, anche se non potrò fare a meno di dire a Lucia e Tommaso, soprattutto Tommaso li aveva amati a Italia’s Got Talent, che lui, Mirko, Zagor, è morto e è morto di Coronavirus, e qualcosa di bello, di unico, qualcosa che in qualche modo fa parte dei miei ricordi personali con lui, con Mirko, con Zagor, e anche con Vittorio, Ruben, mi serve, mi serve maledettamente, e non mi frega un cazzo se ora pensate che sono un egocentrico, non ho fatto nulla di grande io, ho solo fornito una connessione tra anime belle, sono stato un tramite, un medium, ma qualcosa di bello mi serve maledettamente, come maledettamente mi servirebbe oggi, oggi più che mai, di poter bere qualcosa, di potermi stordire, di riuscire a dormire stanotte, non di starmene lì a rigirarmi nel letto come ormai faccio tutte le notti, stanotte sarà tremenda, lo so, previsione facile facile, quasi infantile.

Busto, cercatevela su Youtube o dove volete, questo il titolo del brano finito in Discoteca Rock de I Camillas e nato dalla collaborazione più improbabile del mondo, quello tra I Camillas, appunto, e Tony Pagliuca de Le Orme, ma il suo tocco è anche nelle successive D’Occhio Gigante e Sbranato. Vorrei andare a ascoltarmele, ora, ma so che non mi farebbe bene, che non reggerei la botta, come non potrei reggere, che so?, ascoltarmi Amico di Ieri, canzone de Le Orme che per prima ho imparato a suonare quando ho imparato a suonare la chitarra, una vita fa. Ci ho provato con Bisonte, canzone già struggente di suo, nella sua straniante leggerezza, ma mi si sono velati gli occhi, e mi sono promesso che non avrei mai pianto in questi giorni di contagio, non voglio iniziare proprio oggi.

Non ho memoria se poi anche nella musica sacra di Tony Pagliuca siano finiti I Camillas, non ho la forza di andare a controllare sulla chat di whatsapp, né su messenger, né, confesso, ho seguito la discografia di Tony, magari nei prossimi giorni ci provo, potrebbe valerne la pena.

Non so neanche se oggi avrei voglia di sentire musica sacra, men che meno una musica sacra che porti in qualche modo il tocco geniale e iconoclasta di Zagor e Ruben.

So solo che da oggi, per me, il Coronavirus non potrà davvero più essere solo numeri e statistiche, curve e picchi.

Non lo è mai stato, in fondo, inutile io menta a me stesso.

Proprio nelle stesse ore in cui mi giunge questa notizia sconvolgente sui social comincia a girare una sorta di raccolta firme perché, oltre a riaprire le librerie, si pensi anche a riaprire i negozi di dischi, la discografia del tutto dimenticata da qualsiasi ipotesi di ripartenza, come comparto economico, e anche nel dettaglio. Mirko aveva un negozio di dischi a Pesaro, il Plastic. Non so se c’è una qualche metafora da trarre da questa mesta concomitanza, forse che alcune persone e alcune situazioni sono destinate a finire per sempre, nello stesso momento, lasciando solo bei ricordi.

Mentre sto finendo di scrivere queste parole, la musica è capace di costruire connessioni che anche volendo non sapremmo fare altrimenti, lo so benissimo, mi arriva un messaggio su whatsapp da una grande artista che non ho mai conosciuto di persona, dal vivo, Serena Ganci, ma che in qualche modo è parte delle persone che ho care, in virtù della sua musica, un messaggio che dice semplicemente “pillola malinconica” e che accompagna un suo video, in bianco e nero, la solita capigliatura spettinata che ci accomuna, un video in bianco e nero di lei che, malinconicissima, canta e mi affetta il cuore crepato, permettendo che io finalmente mi possa davvero lasciare andare senza freni.

Sono sempre lì a dire e fare e cantare e rovesciarvi e sorridervi, recita il post che I Camillas hanno messo sulla loro pagina pubblica per salutare Mirko Bertuccioli, detto Zagor, artista morto per Coronavirus. Oggi non abbiano nulla per cui sorridere, ma le conserveremo per le prossime settimane e i prossimi mesi, sapranno sicuramente farci bene.