Vedo in giro una gran voglia di sangue che ha come vittime sacrificali i runner, i vecchi, i giovani della movida e tanti altri

Smettetela di fare gli sceriffi, i delatori, quelli pronti a accusare gli altri di una situazione che purtroppo non dipende dall’oggetto del nostro odio


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Chiunque abbia dimestichezza con le serie catastrofiche, apocalittiche ben sa come la parte più difficile dei giorni post-catastrofe o post-apocalisse sia in genere quando si deve lasciare la comfort zone del proprio villaggio, rifugio, castello, per andare a caccia. Per caccia, sia chiaro, non si intende, quasi mai, la caccia vera e propria, quella che farebbe infuriare Daniela Martani, per intendersi, ma l’attività di procacciare beni di prima necessità, essenzialmente cibo e medicinali, ma non solo. Quindi, parliamo di serie catastrofiche e apocalittiche, da I Sopravvissuti a The Walking Dead, andare per negozi a cercare di raccogliere il maggior numero possibile di cibi e prodotti utili, ma anche andare a caccia per boschi, se serve.

Ora, in questi strani, stranissimi giorni di contagio e isolamento, siamo arrivati al ventinovesimo giorno di clausura, ventinovesimo, ripeto a voce alta, la nostra comfort zone, si fa per dire, è casa. Da intendersi esattamente per quel che si intende casa, quindi il monolocale, il posto letto, l’appartamento, la villetta bifamiliare, la villa con parco, a seconda di dove uno si trovi a vivere. Immagino, ma vado così a occhio, che a parte i tanti che si sono prodigati a invitare la cittadinanza a rimanere a casa, l’hashtag #iorestoacasa lo conosciamo tutti, immagino, nella stragrande maggioranza dei casi, parlando di casa, si intenda qualcosa di non eccessivamente spazioso e confortevole, anche se è sempre comunque meglio dell’apocalisse e la catastrofe che ci attenderebbe là fuori.

La comfort zone è casa per due ragioni, anche piuttosto semplici da decodificare, la prima è che in effetti a casa passiamo una porzione consistente del nostro tempo, fatte le debite eccezioni di chi anche in questi giorni lavora fuori casa, e non credo sia necessario io stia qui a tributare la mia gratitudine a chi si spende a rischio della propria vita per rendere la nostra confortevole, in alcuni casi, e proprio vita negli altri, parlo ovviamente dei medici, degli infermieri e via discorrendo, qui provo a alleggerire gli animi, di qui il mio non parlare mai di questo, capitemi, quindi la prima ragione per cui casa è la nostra comfort zone è che in effetti a casa passiamo una porzione consistente del nostro tempo, nel mio caso specifico, mio e della mia famiglia, praticamente tutto, da ventinove giorni, la seconda è che il mondo fuori, mai come oggi, ci sembra ostile, pericoloso, fatale.

Ho già scritto nei giorni scorsi di come io abbia optato per un lavoro che mi tiene il più del mio tempo a casa, non è di questo che voglio parlarvi oggi, ma è evidente che le incertezze riguardo come in effetti il virus si propaghi, diciamolo, anche i decreti fatti a cazzo che dicono tutto e il contrario di tutto, lasciando ai singoli la possibilità di interpretarli senza neanche il bisogno di cavillare, salvo poi tuonare che non si rispettano regole che hanno maglie larghe come certi capi di lingerie che, non ho capito esattamente perché, Wish continua a propormi in sponsorizzazione su Facebook, al pari di protesi in lattice del cazzo da infilare dentro le mutande e mascherine di varia fattura che tanto sappiamo non arriverebbero mai entro tempi brevi, è ovvio che le incertezze riguardo come in effetti il virus si propaghi e riguardo, quindi, come il virus si possa fermare ci stanno inducendo a guardare al mondo, inteso come mondo fuori dalla nostra comfort zone casalinga, e inteso come altri esseri umani che non siano il nucleo ristretto della nostra famiglia, nel mio caso nucleo ristretto si fa per dire.

Quindi è casa la nostra comfort zone, o stiamo imparando a farcela diventare. Con tutte le variabili del caso, ci mancherebbe, e per variabili, le cito random e senza affatto volerne sminuire il peso, ma questo è il mio diario, non un diario universale, e per variabili intendo chi una casa non ce l’ha, penso ai senzatetto che dormono solitamente in strada o nei ricoveri, oggi veri e propri lazzaretti, immagino, a chi non ne ha una che risponda ai requisiti minimi per essere definita tale, a chi, magari lavora momentaneamente altrove, o studia momentaneamente altrove, e quindi vive in un posto letto, condividendo spazi minimi con sconosciuti, a chi a casa non riesce a starci perché ha patologie, fisiche e mentali, che richiedono di stare all’aperto, penso ai depressi,  a chi soffre di disturbi alimentari e magari identifica nello stare con la propria famiglia parte dei suoi mali, penso, ma qui andrei in un campo davvero troppo ampio e impraticabile così, en passant, a tutte quelle persone, donne in stragrande prevalenza, che sono vittime di violenza proprio dentro le quattro mura di casa, e che staranno immagino vivendo questa situazione come un incubo anche peggiore che l’ammalarsi di Coronavirus, insomma, di motivi per non starsene tranquilli a casa ce ne sono e ce ne sono anche parecchi, e non ho ancora menzionato la solitudine, per rispetto, perché io vivo con altre sei persone e sicuramente di solitudine non soffro, anzi, a volte vorrei tornare a quando me ne stavo a casa da solo a scrivere, ma solo per pochi istanti, poi torno lucido e mi pento di averlo anche solo pensato, ma penso che la solitudine uccida lentamente tanto quanto il virus, lo vedo negli sguardi di chi, affacciato dal balcone, cerca un contatto umano con i vicini, quegli stessi vicini con cui manco si salutava prima, magari, e soffro per loro, come soffro per i miei amici che ogni tanto videochiamo, sapendo che vivono soli questo momento difficile. Insomma, mi sto facendo troppo serio, e che cazzo, torno al mio discorso, che è sì serio, ma non tragico.

Casa è la nostra comfort zone, provate a seguirmi anche se rientrate nelle eccezioni di cui sopra, ma ogni tanto tocca violare quella comfort zone. Per dire, il mio amico e collega, ma più amico che collega, non perché non sia in effetti anche un collega, ma credo che l’affetto superi la professione, quindi il mio amico e collega ma più amico che collega Gianni Biondillo, sì, quel Gianni Biondillo lì, sostiene che in questo mio diario, lui se lo sta leggendo tutto, credo sia la sola persona al mondo a leggere tutto quello che scrivo, o una delle poche persone, e non lo dico perché ho un calo di autostima, non ho cali di autostima o se li ho durano poco, ma perché sono uno scrittore piuttosto prolifico, anzi, molto prolifico, morto Camilleri credo di essere il più prolifico in Italia, se non al mondo, e difficilmente si riesce a starmi dietro, per dire, in casa mia, altre sei persone oltre me, nessuno legge quello che scrivo assiduamente, neanche io stesso, potrà pensare qualcuno, motivo per il quale, il fatto che i miei non mi leggano, mi permette di parlarne così tanto spesso, loro non lo sanno e non possono protestare a riguardo, comunque il mio amico Gianni Biondillo, e se pensate che io stia abusando di relative in questa frase, a breve capirete anche perché lo sto facendo, perché sì, lo sto facendo, sto abusando di relative, del resto sono lo Yoda delle relative, sono cintura nera di relative, sono il Rocco Siffredi delle relative, potrò pur usarle se so usarle o dovete stare lì a cagarmi il cazzo?, ecco, a tal proposito, il mio amico e collega Gianni Biondillo, più amico che collega, non ricordo se ve l’ho già detto, sostiene che in questo mio diario, lui lo sta leggendo tutto, io mi stia muovendo troppo nella comfort zone dell’utilizzo reiterato delle relative e soprattutto delle ripetizioni compulsive di intere frasi e discorsi, come quello che in casa siamo in sette, me più mia moglie Marina, che sta insieme a me da trentadue anni, la amo etc etc, i miei figli Lucia, diciotto anni, Tommaso, quattordici anni, i gemelli, Francesco e Chiara, otto anni, più mia suocera Franca, di cui non dirò l’età, per tutelare il suo diritto alla privacy, ma se come il mio amico e collega Gianni mi leggete con assiduità, lui, amico e collega ma più amico che collega, mi legge sempre, già lo sapete, fosse ancora vivo sarebbe coetanea di David Bowie e in tutti i casi è della stessa generazione di Steven Tyler e quella gente lì, lui, il mio amico e collega Gianni Biondillo, e ora chiudo questa che credo sia il corrispettivo linguistico di una gang bang, sostiene che io stia abusando del mio stile, perché in realtà potrei dire le stesse cose con molte meno parole, questo sostiene il mio amico e collega, ma più amico che collega, Gianni Biondillo.

Potrei serenamente dire che è tutto vero, non solo per l’affetto che mi lega all’amico, più che al collega, Gianni Biondillo, ma anche perché in effetti lo so bene che un concetto lo si può esprimere con cento come con dieci parole, spesso, ma siccome ho appena detto che la frase lunghissima e articolata che avete appena letto, non ho voglia di contare le relative, ma credo siano abbastanza, è una sorta di gang bang, ecco, diciamo che nel mio approcciare la parola come un piacere è come se mi si dicesse che per arrivare all’orgasmo si può dare tre colpetti, e qui sto usando un linguaggio volutamente sciatto e disturbante, amici lettori, non vergognatevi nel provare disagio, è tutto voluto, o fare l’amore per un tempo decisamente più lungo, e credo di essere magari a rischio incoerenza nel momento in cui ho parlato di gang bang e ora parlo di amore, ma non state qui a fare la punta al cazzo, né a fare i moralisti, magari c’è chi ama un sacco di gente e si esprime attraverso gang bang, vallo a sapere, amici, e parlo soprattutto a Gianni che immagino mi chiamerà per farmi notare l’incongruenza, era per specificare che a volte l’abbondanza è meglio della parsimonia, ricordatevene se nei prossimi giorni sarete costretti a razionare cibo e altro chiusi dentro casa.

Perché è di questo che in realtà volevo parlarvi, del fatto che, a volte, nel mio caso ogni tre, quattro giorni, vivo in casa con altre sei persone, non credo sia necessario rinominarvele per l’ennesima volta una per una, ha ragione il mio amico e collega Gianni Biondillo, devo lasciare la comfort zone della mia casa per andare a fare la spesa.

Fatto che, in sé, dovrebbe essere visto come un momento di evasione, uso un termine metaforico che però può essere letto anche letteralmente, visto che viviamo in qualche modo reclusi, ma come certi animali ormai abituati a vivere in gabbia, confesso di non vivere il momento della spesa come un momento felice, di quelli che ti sollevano, tanto per mettere una didascalia ai tanti che pensano che uscire sia cosa da irresponsabili, da untori, da gente che non ha capito.

Immaginatemi mentre mi vesto come un torero che si appresta a scendere nell’arena, e so che nel dirlo farò incazzare Daniela Martani e gli altri animalisti, ma io non sono mica a favore delle corride, sto usando l’immagine della vestizione del torero per risparmiare energie mentre bulimicamente scrivo questa mia pagina di diario, la ventinovesima, a essere precisi. Ci sono io, lo stesso animo del torero, ma nello specifico di uno di quei toreri dei video che poi animalisti e Daniele Martani, ciao Daniela, condividono con un certo malcelato piacere, quelli che vengono incornati dal toro, ne ricordo uno, di questi video, in cui il toro infilava le corna nel culo del torero, ecco, io sono quel torero lì, in caso, ci sono io, lo stesso animo del torero che poi finirà inculato dal toro nel video di cui sopra, che mi vesto, in sottofondo una musica alla Morricone, epica, da cowboy che si stanno per sfidare a duello, pensatemi con la faccia di Lee Va Clift, e so che sto confondendo narrazioni, ma sono ventinove giorni di clausura, cosa volete, il sangue?, ci sono io che mi vesto infilando i miei amati jeans, maglietta, felpa, scarpe, giubbotto, guanti in lattice, mascherina da skater di mio figlio, nera, di quelle che si usano per fare i fighi se vai al Parco Lambro, Lambrooklin’ per i non pratici, a fare il figo nella pista di skate, o, se sei un writer, e mio figlio Tommaso, lo stesso senso del dovere di Salvo D’Acquisto, non solo non farebbe mai tag o murales, figuriamoci, ma credo sarebbe disposto a denunciarli, se mai gli capitasse di vedere qualcuno che lo fa in presa diretta, vedi la legge del contrappasso generazionale, ciao papà, lo so che avresti voluto un figlio coi capelli corti e un lavoro spiegabile in meno di diecimila battute, anche se ormai ci sarai abituato, immagino, mascherina nera da skater che, da un punto di vista meramente sanitario, credo, ha lo stesso valore del fiore in bocca cantato da Battisti e poi citato da Luca Carboni, rispettivamente ne La canzone del sole e Silvia lo sai, lo dico per le capre che abbiano miracolosamente resistito alla gang bang di cui sopra, ma questo passa il convento.

Ci sono quindi io, lo stato d’animo del torero che verrà inculato, vestito e bardato come Vittorimo Gasman in Brancaleone, che sto per lasciare la comfort zone per andare a fare la spesa, Morricone a accompagnarmi.

E poi ci sono io che esco. Prendo la macchina, perché devo fare una spesa importante. Esco ogni quattro giorni, per evitare di intasare il sistema, ma siamo tanti, quindi quando esco riempio almeno quattro, cinque bustoni da supermercato. Quella che solitamente è la spesa della settimana diventa la spesa dei tre, quattro giorni, anche perché i figli, che di quei sette sono la maggioranza, quattro contro tre, mangiano come non ci fosse un domani, e mai come oggi questa frase mi sembra infelice. Non capiscono che bisogna darsi una regolata, e siccome sono già bombardati da input catastrofici e apocalittici, mi guardo bene dal fare discorsi come “ai tempi delle guerra i vostri nonni” o roba del genere. Esco e vado a fare la spesa in auto. Sapendo che ci impiegherò del tempo.

Negli ultimi giorni, grazie ai proclami idioti di chi ci guida, penso nello specifico a chi guida questa regione, ma a seguire a chi guida questa nazione, lo capite che siamo in mano a gente come la Azzolina o Gallera, sì?, le file sono molto più lunghe. Credo sia normale se ogni due per tre, scusatemi questa mesta espressione proprio da supermercato, si grida all’imminente chiusura dei supermercati, che la gente si affretti a fare la spesa, per paura di non mangiare. E non venite a parlarmi della guerra, appunto, i miei la guerra l’hanno vissuta, e forse proprio perché la mia generazione ha sentito i loro racconti oggi tendiamo a evitare di provare la fame, no? Comunque, negli ultimi giorni la coda è più lunga, molto più lunga, anche perché la gente tiene distanze chilometriche. Non tutti hanno le mascherine, perché le mascherine non si comprano e se provi con Amazon, per dire, ti indicano come data di consegna maggio, idem per i guanti, ma tanto quando entri al super ti forniscono in tutti i casi i guanti che solitamente si usano per scegliere frutta e verdura, non esattamente guanti da chirurgo, è vero, ma nessuno deve operare a cuore aperto. Io, per dire, ho finito i guanti, dalla prossima volta mi arrangerò, lavando poi molto bene le mani una volta tornato a casa, come ormai facciamo un po’ tutti e come, ma magari sarò strano io, ho sempre fatto per quel sano principio di non voler mangiare la merda che da sempre mi accompagna, senza nulla contro chi vuole mangiare la merda, sia chiaro. Ultima spesa fatta, due ore e un quarto di attesa prima di entrare nel super. Circa mezz’ora passata al super, riempiendo il carrello come neanche il campione mondiale di Tetris, non c’entrerebbe neanche un asparago, certo senza riuscire a comprare tutto, e poi via, verso casa.

Mentre ero in coda al super, l’ho già raccontato sui social, è arrivata una vecchina ultranovantenne, con gobba, bastone e gambe palesemente storte. Il parcheggio del super dove sono è pieno di gente, molti a piedi, quindi molta gente ma poche auto. La fila si dipana su tutto il perimetro del parcheggio, facendo una serie di curve innaturali, al punto che spesso chi arriva capisce dove finisce la fila solo dopo un po’ di giri. Nessuno sembra così collaborativo da dire a voce alta “ultimo”. Quando è il mio turno lo faccio, ma il mio dirlo risulta molesto, direi, stando agli sguardi di biasimo che ricevo. Comunque arriva la vecchina, la tipa che sta davanti a me, una signora polacca di oltre settant’anni senza mascherina e guanti, la chiama. Sta parlando ininterrottamente col tipo rumeno che le sta avanti in fila, anche lui sprovvisto di tutto. Lei fa la badante, dice, lui il custode in un centro sportivo. La vecchina arriva dalla signora polacca. Si conoscono da tempo, la signora polacca ha lavorato con lei, in passato. La signora polacca, immagino, sarà stata giovane, una delle prime bandanti dell’est giunte in Italia, di quelle cantate da Baglioni ne Le Ragazze dell’Est, la vecchina già vecchia. La signora polacca la invita a superare la fila, ha oltre novant’anni, ne ha diritto. Dice anche qualcosa come “vedrà che la fanno passare”, ma su questo io avrei dei dubbi, dubbi che ovviamente non esterno, sono d’accordo con lei. La vecchina però dice che non è venuta a fare la spesa, ma per prendere il volantone degli sconti, che dovrebbe essere uscito oggi. Dice proprio così, “Sono venuta a prendere il volantone degli sconti, dovrebbe essere uscito oggi”. Tutti, e quando dico tutti intendo i cento in coda qui, nel parcheggio del super, ci guardiamo perplessi. Poi il tipo rumeno che sta davanti alla signora polacca indica un paranco pieno di volantoni. Ancora imballato. I tipi del super sono troppo indaffarati per sballarlo, immagino, e non è che ci sia una folla oceanica arrivata qui per sapere che sconti ci saranno questa settimana, anche perché in questi giorni si tende a prendere quel che si trova, senza stare troppo a scegliere con cura, prima si fa prima entrano gli altri. La vecchina si avvicina al paranco e ne estrae uno, poi un altro, non si sa mai. Li prende, li piega e li infila nella borsetta. La signora polacca continua a dirle di saltare la fila, ma lei dice che oggi non ha bisogno di fare la spesa, è venuta per il volantone, ma anche per vedere un po’ di gente, che vive sola in casa, per fare due parole. Infatti rimane a parlare con la signora per circa mezz’ora. Poi saluta e se ne va. Dice qualcosa come, “Quando è finita questa cosa passami a trovare, ti preparo un the, mi ricordo che ti piace”.

Mi si crepa il cuore.

Potrei star qui a fare il discorso delle crepe che i giapponesi aggiustano con l’oro, ma questa è una crepa e basta, di quelle che, visto che non sono un cazzo di vaso giapponese, sanguina, e invece che con l’oro aggiusterò con una crosta, come le ferite che da piccoli ci facevamo alle ginocchia.

Perché vi racconto della vecchina? Perché vedo in giro una gran voglia di sangue, altrui, ovviamente. In un momento che di sangue, anche se non credo che il Coronavirus procuri ferite sanguinanti, leggetelo come metafora di morte e malattia, vedo in giro una gran voglia di sangue, di giustizialismo, che abbia i runner, i vecchi, i giovani della movida, i terroni che sono scappati al sud al primo coprifuoco, i milanesi che sono corsi nelle case al mare nello stesso tempo, chi passeggia invece di stare a casa, chi non ha capito, non si sa bene cosa, come vittime sacrificali, e a me questo giustizialismo un po’ fascistoide, proprio perché fascistoide, sta parecchio sul cazzo.

Non esco da quando hanno iniziato a dire che non era il caso di uscire se non necessario. Sono a dieta da quindici mesi, ho peso dodici chili, che sto mantenendo a fatica, e la dieta l’ho fatta per questioni legate al fatto che ero sovrappeso e a una certa età rischiavo, non certo per questioni estetiche di cui, forse si è intuito, non ho grande cura e interesse, mangio meno, stando attento parecchio a cosa mangio, e soprattutto tutti i giorni faccio tra i dieci e i quindici chilometri a piedi. Faccio, facevo. Perché ora sto chiuso in casa, privandomi per altro di qualcosa che mi farebbe fisicamente bene. Ma vivo in casa con altre persone e vorrei evitare di contagiarle, quindi preferisco correre il rischio di ingrassare di nuovo e ricominciare la dieta da capo. Non sono quindi uno che non sta rispettando le regole. Quando esco mi sento un po’ come Will Smith in Io sono Leggenda, senza però avere un cane pronto a morire per difendermi dai vampiri e con la mia Lucille, sono prontamente passato a The Walking Dead, per ora dentro il mio armadio. So di aver abbandonato la mia comfort zone ma so di non avere altra scelta, quindi mi adeguo alla contingenza.

Sono anni, davvero anni, che cagate il cazzo con questa faccenda di rimanere umani. Ecco, forse è il caso di togliere uno strato di polvere da sopra questo slogan e attualizzarlo, perché questo è esattamente il momento di stare umani. Smettetela di fare gli sceriffi, i delatori, quelli pronti a accusare gli altri di una situazione che purtroppo non dipende dall’oggetto del nostro odio, anche perché in questi ruoli non è che siate esattamente credibili. Come ho scritto giorni fa sui social, vi ho lasciati con la macchina in doppia fila e vi ritrovo con la stella da sceriffi.

Chiudo questa lunga pagina di diario ricordando Gianni Mura, uno dei più grandi scrittori e giornalisti contemporanei, non ho paura a scriverlo, morto di infarto nella mia terra natale, le Marche. Indiscusso erede di quell’altro mostro di bravura di Gianni Brera, Mura aveva applicato la sua arte allo sport, nel corso dei decenni, dimostrando come la scrittura sia arte talmente alta da potersi dedicare a gesti apparentemente futili, come una partita di calcio o una corsa in bici. Mi capitava spesso di incontrarlo, nei miei primi anni milanesi, essendo stati noi vicini di casa, e sono sempre stato tentato di tributargli la mia stima, certo che però, burbero come amava mostrarsi, mi avrebbe mandato a cagare. Dopo Limonov, un’altra brutta botta, che impiego un paio di giorni nel metabolizzare. La terra ti sia lieve, Gianni, questa terra un po’ meno confortevole senza le tue parole.