Flashmob per il Coronavirus? Propongo di smetterla con le canzoni al balcone e cominciare con tette e piselli

Quando tutto questo sarà finito e potremo parlare di questa assurda situazione al passato, per dirla con la voce di Mina che canta i versi di Costanzo, faremo tutti finta di niente


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L’impressione che stia cambiando definitivamente tutto, al ventiseiesimo giorno di clausura, si sta trasformando in certezza. Un po’ perché è evidente a tutti, quasi strillato in faccia a tutti, che non è una clausura destinata a fermarsi a breve, sicuramente non per quell’inizio aprile incorniciato nel decreto che sanciva, appunto, la chiusura di un po’ tutto, a partire dalle scuole, anche in virtù di quanti, in barba a quel decreto o giocando su evidenti ambiguità di quel decreto hanno continuato a farsi i cazzi propri, un po’ perché ventisei giorni iniziano a essere oggettivamente tanti, troppi.

Ci siamo abituati al non essere più incastrati nella nostra vecchia routine, quella che consideravamo a ragione o torto, la normalità, e stiamo trasformando in routine, quindi in normalità, questa sorta di autoreclusione nella quale ci siamo relegati. Passare quindi con una certa celerità da uno stato d’animo al suo opposto ci appare normale, pur sapendo noi per quell’esperienza accumulata in anni e anni di vita, che così non è o non dovrebbe essere. C’è chi si abitua, dopo una amputazione, a vivere senza un braccio, direi che siamo piuttosto bravi a adeguarci a nuove condizioni di vita senza impazzire.

Gli sbalzi d’umore sono appunto sbalzi, perché in genere si tende a qualcosa di più stabile, idem per l’instabilità emotiva, le parole, almeno quelle, sono sempre lì a spiegarci le cose. Alzarci una mattina vedendo tutto nero e proseguire così per tutta la giornata anche ci sempre normale, sapendo o sperando che, domani, saremo invece affetti da ipercinismo, da sarcasmo, o semplicemente da voglia di evasione.

Abbiamo visto anche insospettabili diventare delatori degni della peggiore Germania dell’est, presente Le Vite degli Altri?, con tanto di foto con tag messe sui social, di segnalazioni fatte alle forze dell’ordine, il peggio del peggio. Probabilmente anche alcuni di voi lo avranno fatto, e a questo punto, suppongo, avrò perso dei lettori, fottetevi.

Abbiamo visto gente evocare uno stato di polizia, letto su giornali generalisti parlare di punizioni esemplari con tanto di controllo delle celle telefoniche per vedere gli spostamenti dei singoli cittadini, Echelon portaci via, insomma, stiamo entrando in una sorta di dittatura de facto, senza sapere quando e se questo finirà.

Ci stiamo anche organizzando, parlo di chi in genere è abituato dalla vita e da un mestiere basato sulla creatività, flessibile per natura, a inventarci qualcosa di valido, di valore, da portare avanti così, ognuno a casa sua, perché la vita va avanti, e magari ci troveremo a passare in casa qualcosa di più di qualche settimana. Il tutto con quel tourbillon di polemiche, cacce alle streghe, voglia di sangue, disperazione, superficialità, emotività, empatia e via discorrendo che i social ci hanno amabilmente messo a disposizione.

Sono uno scrittore, immagino lo sappiate, e sono uno scrittore votato alla clausura, ne parlavo giorni fa, stare in casa è parte integrante della mia vita quotidiana, ma è una scelta, non una imposizione.

Stare in casa e spiare la vita degli altri attraverso i social, invece, è proprio una parte preponderante del mio lavoro, ben sapendo che la vita che appare dai social non è esattamente la vita che vedremmo se stessimo in strada, o a casa delle persone che, attraverso i social, spiamo. Esiste un bellissimo saggio di David Foster Wallace, uno che in un periodo come questo avrebbe potuto regalarci perle inarrivabili, che parla del rapporto tra gli scrittori e la televisione, o meglio degli scrittori americani e la televisione. Si intitola E unibus pluram e si trova nella raccolta Tennis, Tv, Trigonometria e Tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più). Quando David Foster Wallace lo ha scritto, nel 1990, non c’erano i social, quindi lo scrittore americano, suicida nel 2008, parla del rapporto con la tv identificando nella tv la possibilità di spiare la vita degli altri senza essere a sua volta spiato. I social offrono una possibilità assai più ampia di spiare, fatta la tara di quanto quel che accade sui social sia distorto appunto dall’essere sui social e non fisico, ma costringe in buona parte a mettersi in gioco, lasciando che gli altri ci spiino. Chiaramente c’è la possibilità di spiare e di non farsi spiare, come c’è la possibilità di non farsi spiare e di non spiare, se non per gruppi circoscritti di persone, ma credo, e lo credo senza un supporto scientifico, chiaramente, così, andando a braccio, che i social ci abbiano spinto a un certo grado di narcisismo accessorio, che prevede e pretende ci sia un pubblico a guardarci.

Come interpretare altrimenti il voler a tutti i costi commentare tutto, sapere tutto di tutto, avere sempre qualcosa da dire riguardo qualsiasi argomento, piangere qualsiasi morto famoso, anche se ne ignoravamo l’esistenza un minuto prima di aver visto un link che ne comunicava la morte, si pensi a quante volte è stato pianto negli anni Ravi Shankar per quel ricondividere ciclicamente la notizia della sua avvenuta dipartita?

E come spiegare, ma qui entra sicuramente in ballo il fatto, appunto, che stiamo vivendo in un’epoca senza precedenti, di clausura globale e collettiva, di paura globale e collettiva, di incertezza globale e collettiva, ma come spiegare, altrimenti, questa voglia irrefrenabile di far sapere a tutti che ci siamo, che siamo empaticamente collegati gli uni gli altri, poco conta che abbiamo passato la giornata a fare i delatori e urlare all’impiccagione per chi fa footing o se ne sbatte allegramente il cazzo andando a passeggio, noi siamo tutti empaticamente collegati gli uni gli altri con i nostri flashmob, con le nostre dirette, con le nostre catene solidali?

E via gli applausi dal balcone, le canzoni cantate da quartieri interi, le lucine accese, le dirette streaming, gli appelli accorati, gli hashtag #IoRestoACasa, #IoSuonoACasa, #RestateACasa e via discorrendo?

Prima o poi, temo poi, forse anche il mai, qualcuno dovrà studiare tutto questo, sempre che ci sarà una razza umana in grado di farlo o interessata a farlo. Dovrà capire davvero come sono cambiate le dinamiche sociali in questi giorni, anche piuttosto rapidamente. Poi magari fra un po’ avremo rimosso tutto questo, come succede quando fai un incidente di macchina, per un po’ ti prende l’ansia ogni volta che la macchina davanti frena, stringi il volante, vai in iperventilazione, sei tutto sudato, ma un giorno non te ne ricordi più e riprendi a guidare come prima, ma al momento sembra ci siano dei cambiamenti in atto mica da ridere. Pensate davvero, come ho letto auspicare da qualcuno, che il giorno in cui tutto questo sarà finito, e da ora in poi smetterò di mettere in dubbio che ciò prima o poi accada, non tanto per scaramanzia, cazzo me ne frega della scaramanzia, quanto perché alla lunga una reiterazione stanca, lo stile prima di tutto, la forma è sostanza, oggi e sempre, pensate davvero, come ho letto auspicare da qualcuno, che il giorno in cui tutto questo sarà finito scenderemo tutti in piazza come alla fine della guerra, avete presente la foto del marinaio che bacia la ragazza, a New York, la gamba di lei alzata, come nei film romantici, o scenderemo a frotte, scompostamente, suonando le  trombe e i tamburi, abbracciandoci e baciandoci anche tra sconosciuti come quando l’Italia ha vinto i Mondiali nel 1982 o nel 2006?

Io credo, così a braccio, senza nessun supporto scientifico, che saremo per sempre cauti, o almeno per parecchio tempo, come quando, dopo l’arrivo dell’Aids, almeno per un po’ di tempo, vado per sentito dire, che ero piccolo, la gente ha smesso di scopare come capitava, tra sconosciuti, promiscuamente, senza protezione, per evitare di fare la fine di chi, nel mentre, moriva male. Credo che non ci si stringerà più neanche la mano, come fossimo dentro una realtà fantascientifica alla Gattaca, e non lo dico con fare apocalittico, né felice per questa nuova modalità di prendere le distanze di cui già vi ho parlato ormai settimane fa, sono uno che tende a abbracciare e baciare, sappiatelo, ma credo che sarà così, terremo le distanze, avremo paura, saremo diffidenti, come già lo siamo, state tutto il giorno affacciati alle finestre a fotografare i vostri vicini e compaesani per sputtanarli sui social, figuriamoci se poi gli salterete addosso per festeggiare.

Per contro, e veniamo al vero punto di questa mia ventiseiesima novella, non passa giorno, di più, non passa mezza giornata che non ci sia un impegno di un qualche tipo da prendere socialmente, collettivamente.

Li ho già in parte menzionati, i lumini accesi, l’inno di Mameli, Azzurro, la diretta di questo o quel cantante, ma di quelle ho parlato più a fondo ieri, non fatemi ripetere, gli applausi per questa o quella categoria di eroi, certa gente ha più vita sociale ora che è reclusa di quanto poteva stare fuori tutto il tempo che voleva, verrebbe da dire cinicamente.

Ora, io sono un critico musicale, è noto, o almeno è noto a chi mi legge, e se mi state leggendo e non lo sapete, beh, amen, lo scoprite ora per mia bocca, come Jill Jones, canzone anni Ottanta di una pupilla di Prince che ho infilato così, nel discorso, da una parte per il piacere di farlo, amo sempre mettere pop e alto nello stesso discorso, e dovevo compensare la citazione del saggio di David Foster Wallace fatta poco fa, e anche per dimostrare ai dubbiosi appena arrivati su questi lidi che in effetti musicalmente ne so abbastanza, mica ho citato una canzone dei Queen, io, ho citato Jill Jones e Mia bocca, andate e prendetene tutti, quindi sono un critico musicale, e sono anche un critico musicale noto più per le sue stroncature, anche piuttosto violente che per le sue incensazioni, per chi non mi conosce vale il discorso su fatto.

Sono un critico musicale noto per essere piuttosto duro, inflessibile, radicale, anche un po’ stronzo, ma sono anche quello che da sempre difende gli indipendenti dal sistema musica che guarda solo al profitto fregandosene dell’arte, che tutela le cantautrici in un mondo maschilista e di maschi, nonché un padre di famiglia, padre di quattro figli, marito innamorato, cittadino dotato di un mio senso civico.

Non sono un mostro, per dirla con il protagonista di Elephant Man di Lynch, e so di ripetermi.

Questo per dire che trovo tutto molto bello.

I Flashmob, gli appelli a restare a casa, le dirette degli artisti, la gente che canta sui balconi, quella che applaude, le catene di sant’Antonio che ricevo su Whatsapp, le immagini sacre affiancate alle poesie del cazzo su foto di fiori, i lumini da accendere a una determinata ora, le continue richieste di contribuire a un qualche evento benefico nonostante, al momento, io faccia parte di una delle poche categorie che nel Decreto Cura Italia non è manco citato, inesistente. Tutto bello. Bello davvero.

Però, siccome io sono un critico musicale, e sono un critico musicale che ha basato la propria credibilità su quello che scrive, e anche sul fatto di scriverla senza fare sconti, pane al pane e vino al vino, credibilità ancora più difficile da cementare dal momento che poi mi presento coi codini alla Frank Zappa, colui che ha scritto che scrivere di musica è come ballare di architettura e che il critico è uno che non sa scrivere che scrive per gente che non sa leggere di gente che non sa parlare etc etc, e con gli occhiali rosa, grandi, da scemo, che ho preso ormai una vita fa a Vasto, durante una Notte Rosa, dove eravamo andati con la famiglia per festeggiare il compleanno di Lucia, che fa gli anni l’otto agosto e in genere lo festeggia sempre solo con noi della famiglia, lontana da amici e compagni di scuola, e l’anno scorso, pensa te, la abbiamo portata a Auschwitz, perché eravamo nel mezzo di un viaggio fatto tra Ungheria e Germania, con tappa in Polonia, e l’unico giorno in cui abbiamo trovato modo di andare a Aushwitz, eravamo a Cracovia, è stato il giorno del suo compleanno, anzi, non il giorno del suo compleanno, il giorno del suo diciottesimo compleanno, pensa te, siamo passati dalla Notte Rosa di Vasto, o da una giornata all’Acquafan di Riccione, così facevamo negli anni prima dell’arrivo dei gemelli, a Auschwitz, guarda te la vita, siccome sono un critico musicale che si presenta coi codini di Frank Zappa e gli occhialoni rosa e che quindi si conquista la sua credibilità con quello che scrive, giorno dopo giorno, mica me l’ha regalata nessuno la credibilità che ho, ecco, siccome sono un critico musicale e sono un critico musicale che ha basato la sua credibilità su quello che scrive, pane al pane e vino al vino, tocca che ve lo dica, tutto bello, tutto molto bello, ma fate tutti cagare.

E per tutti non intendo solo voi che cantate l’inno di Mameli alle 18, Azzurro alle quattordici, e che pensate che per cantare Il Cielo è Sempre Più Blu di Rino Gaetano basti urlare più forte degli altri, ma anche buona parte degli artisti, ripetere aiuta, che senza supporto di super turnisti e fonici cadono giù come frutta moscia. Tutti quanti. O quasi. Ma star qui a fare le distinzioni, lo confesso, mi induce quasi più in imbarazzo che mettere anche i pochi buoni nel calderone di quelli che fanno cagare, perché chi fa cagare lo sa, ma non per questo si ferma o viene fermato da qualcuno che gli vuole bene, non sia mai che poi è l’ultimo ricordo che lascia sulla Terra.

Oltre questo il danno economico e intellettuale che farlo gratis comporterà, ieri l’ho spiegato più approfonditamente.

Oggi parlo di danno estetico.

Fate tutti cagare, parecchio.

Quindi ora fate come dico io.

Da oggi fino a nuovo ordine, alle diciotto niente dirette, niente inni di Mameli, niente #iosuonoacasa.

Avete rotto il cazzo, farete anche bene a voi stessi, ma non fate un buon servigio agli altri.

Fermatevi.

Da oggi fino a nuovo ordine, alle 18, tutte le donne usciranno sul balcone o si affacceranno alla finestra e tireranno fuori le zizze, le tette chiamatele come vi pare, avete capito perfettamente. Tette di fuori, in evidenza, senza cantare, però.  Per chi vuole vanno bene anche culi e passere, ma dalla finestra o dal balcone, converrete con me, le tette si vedono meglio. Siamo pratici, compagne.

Tanto vi abbiamo visto con la ricrescita e in tuta da ginnastica mentre cantavate Nel Blu Dipinto di Blu, non credo parlare di pudore abbia più molto senso.

Per par condicio noi uomini, alle otto di mattina, l’idraulica potrebbe darci una mano, tireremo fuori i piselli e chi è in grado farà l’elicottero. Il discorso del pudore vale lo stesso, lo dico per il mio vicino che ho visto saltellare in tuta da ginnastica suonando l’armonica.

Mi faccio promotore di questa iniziativa, auspicando partecipino anche artisti di ogni settore, ivi comprese le pornostar che, magari, avrebbero anche qualcosa di insegnarci a riguardo. E se i social proveranno a censuraci dovranno censurarci tutti, non credo convenga loro perdere di colpo tutto il traffico che gli portiamo, specie in giorni come questo in cui tutto avviene solo online. Avete presente “arrestateci tutti”? Zuckerberg, sei avvisato, statti all’occhio.

Possibilmente riprendete tutto e trasmettetelo in streaming, come insegna l’abc di chi segue i thriller o i gialli, quando una collettività compie un crimine tutti insieme nessuno starà lì a fare la spia o a recriminare qualcosa. Siamo tutti sulla stessa barca, questa la morale.

Hashtag consigliati, #LeEscoACasa e #InAltoICapezzoli, per le donne, #EGrazieAlCazzo per gi uomini.

Come colonna sonora, ca va sans dire, Mia bocca di Jill Jones, ma va bene anche una qualsiasi delle muse di Prince, da Apollonia a Sheila E, da Sheena Easton a Vanity, passando per la Family o Wendy and Lisa, musica per organi caldi, direbbe il vecchio Hank, e un po’ di sano turgore non ha mai fatto male a nessuno, anzi, visto mai che da cosa nasce cosa e ci si possa divertire anche di più.

Se e quando tutto questo sarà finito e potremo parlare di questa assurda situazione al passato, e per dirla con la voce di Mina che canta i versi di Costanzo, e sottolineo se, faremo tutti finta di niente.

Continueremo a guardarci con lo stesso sguardo deferito, a volte ostile, con cui ci si guarda tra vicini da che mondo è mondo. Certo, sapremo cosa si trova sotto quel tailleur o sotto quel completo grigio abbinato a una cravatta regimental, ma dissimuleremo ogni tipo di riferimento a questi strani giorni, niente sorrisi complici, niente sguardi d’intesa, niente di niente.

Un saluto a mezza bocca, sempre che si trovi il tempo di farlo. Io vivo a Milano e giocherò, immagino, la carta dell’indifferenza, sto qui da ventitré anni, qualcosa avrò pure imparato.