Per il Coronavirus, ho visto il video di un intero quartiere che cantava Cornutone degli Squallor: un grande, un grandissimo pezzo!

Una canzone immensa, per altro, come struttura armonica di rilievo, con un testo che è una fotografia di stati d’animo e che usa figure retoriche, dalla miss al cornutone medesimo, talmente nitide da essere quasi cinematografiche

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Azz, e mo m’hai cagat’ ‘u cazz’, pecché me stai siempre appriess’?”

Partiamo dalle parole del poeta in questo ventiduesimo giorno di clausura forzata, perché il poeta, in quanto tale, riusciva in poche parole a dire quello che noi, comuni mortali, neanche sapevamo di pensare. Nello specifico, io, che poeta non sono, proverò a dirvi la stessa cosa nelle solite, diciottomila battute, attaccato a queste pagine di diario con la stessa disperata tenacia con cui i naufraghi sopravvissuti del Titanic se ne stavano lì, le braccia avvinghiate alle assi di legno che li tenevano a galla nell’Oceano.

Il fatto è, non prendetemi per un piagnucolone, me lo aveste anche solo detto ridendo in un periodo normale ora ve ne stareste in terra a raccogliere l’arco dentale tra le cagate di qualche cane coi pradroni poco civili, ma la convivenza è ondulatoria, e per quanto non si sia in carcere, non si sia in ospedale, si sia in situazione di autoreclusione proprio a partire dalla salvaguardia di quei cari con cui condividiamo gli spazi, non posso negare che ci siano momenti in cui la stessa convivenza salvifica risulti ostica, quasi insopportabile. Non tirate in ballo ora l’amore, quello verso chi vive la vita con noi, quello verso i figli. Provate, so che per voi è difficile, a fare un minimo sforzo intellettivo. Ovvio che amo mia moglie e i miei figli, ma la costrizione è costrizione, ci toglie il fiato, al punto che a volte anche la paura di un virus di cui sappiamo poco ci fa meno paura. Poi la razionalità ha il sopravvento, e proprio quell’amore di cui sopra fa sì che anche il non poter uscire quando vogliamo, fare la vita che per noi era la vita di tutti i giorni come quella eccezionale delle occasioni speciali, ora tutte inglobate nella routine del rimanere fissi in casa, ci consente di andare avanti, trasformando una forzatura in qualcosa di naturale, di cui, ci diciamo, sorrideremo in futuro.

Ma non è del futuro, che voglio parlarvi. Né dei sorrisi. Ma piuttosto di questo moto ondivago, cui facevo cenno prima.

Parlo per me, come del resto, si sarà notato, tendo a fare in genere, passo con una certa frequenza e celerità da uno stato d’animo al suo opposto. Un momento sono qui che passo le crocchette al mio cinismo, guardando con disprezzo se non disgusto a chi prova a tenersi vivo nelle maniere più disparate e disperate, flashmob e dirette che spuntano come funghi in un giorno di pioggia, e dopo un minuto mi trovo gli occhi velati di lacrime per aver letto un post, visto un video o semplicemente pensato a come a volte la vita di ponga di fronte a situazioni incredibili che noi incredibilmente affrontiamo con spavalda coerenza. Mi commuovo e mi incazzo per cose che in un contesto di normalità non pretenderebbero un secondo delle mie attenzioni, figuriamoci delle mie emozioni.

E se è vero, lo dicono in molti, lo si vede, che questi giorni di clausura ci spingono a fare cose che in un normale contesto non solo non faremmo, ma neanche ipotizzeremmo di poter fare, penso a quanti si sono mostrati sui balconi di mezza Italia spettinati, struccati, vestiti con felpe improbabili, le ciabatte ai piedi, a cantare canzoni che nella vita di tutti i giorni ci fanno cagare, uniti da un sottile filo di solidarietà che di colpo ci lega ai nostri vicini di casa, quelli che magari neanche salutiamo se li incrociamo sul pianerottolo, figuriamoci se avremmo mai pensato di starci a cantare Azzurro o un altro classico di quelli che, suppergiù conosciamo tutti insieme, è altrettanto vero che lo facciamo come spinti da quel fatalismo che ci induce, nei momenti di pericolo, a fottercene del nostro pudore, delle nostre paure sociali, lì a mostrarci per quelli che siamo davvero, senza maschere e armature. Io lo sto facendo in questi scritti, ma sotto l’armatura ne ho una più spessa e invincibile, non faccio testo. Stiamo qui a suonare i tamburelli mentre il dirimpettaio canta una canzone irlandese, ballando come Bob Gelfod nel video di The Great Song of Indifference?

Che problema c’è, tanto probabilmente moriremo tutti e tutto questo resterà come lacrime nella pioggia, Rutger si è tolto dalle palle prima di vedere tutto questo, lui che aveva visto cose che noi umani.

Applaudiamo affacciati in piazza, le sparutissime auto che suonano il ckackson, l’eco dei tanti applausi che partono da un po’ tutti i palazzi?

Bello, e poco conta se nel farlo sembriamo tutti i Queen in I Want To Break Free, beato fatalismo.

Ora, senza voler scomodare altri poeti, mentre penso a me stesso che vi racconto di quella volta che ho cagato in strada a pochi passi dalla piazza centrale della mia città natale, non posso non correre con la mente a uno dei miei film preferiti di sempre, Quasi Famosi di Cameron Crowe. A un certo punto il protagonista, le groupie, che a partire da una gigantesca Penny Lane interpretata da una Kate Hudson da favola, vere protagoniste della storia, e la band le cui gesta il protagonista segue per Rolling Stone, sono a bordo di un aereo quando arriva una turbolenza. Ma non una turbolenza qualsiasi, una turbolenza talmente violenta che inizia a far precipitare l’aereo. Parte il panico, naturalmente. Tutti stanno per morire. Ecco, quindi, che scatta nell’ultimo lasso di vita, il momento delle confessioni, dobbiamo morire, almeno facciamolo col cuore leggero. Non ricordo esattamente tutti i passaggi di quel momento, forse sono sotto sotto omofobo, perché il solo passaggio che ricordo è quando il batterista, e in caso Cameron Crowe è omofobo come me, amen, tanto moriamo tutti, dichiara con voce ferma “io sono gay”, esattamente nel momento in cui la turbolenza finisce e l’aereo ricomincia a viaggiare normalmente. Lo dico, cioè scrivo questo passaggio specifico, non tanto per ostentare la mia appena scoperta omofobia, quanto per auspicare un subitaneo ritorno alla normalità, a costo poi di non poter lavorare in un settore che di ricchioni è pieno zeppo, anche insospettabili. A tal proposito andate a recuperare il monologo di Rocco Papaleo in Viva l’Italia di Massimiliano Bruno, quello che comincia con uno strepitoso “adoro la vostra superficialità effimera, effimeri!”, lo trovate su Youtube col sintomatico titolo “W la fregna”. Ecco sto per distrarmi di nuovo, perché non posso non raccontarvi di quando, alla serata finale del DopoFestival condotto da Edoardo Leo, unica puntata cui ho preso parte come critico musicale, essendoci come ospite anche lo stesso Papaleo, finito il programma l’ho avvicinato per salutarlo, avevamo lavorato insieme al programma di Ambra Stasera niente MTV, lui come ospite io come capoprogetto, ma soprattutto per chiedergli di rifarmi quel monologo a beneficio di smartphone, certo che ne avrei fatto uno dei miei ricordi più belli. Peccato che lui, Papaleo, non ricordasse affatto quel monologo, credo ricordasse a stento il film in questione, al puno che mi ha guardato stranito e mi ha chiesto, “Vuoi che ti dica ‘W la fregna’ a telefonino?”, fine aneddoto.

Quanti input, cavoli, poi giuro che ritorno a provare a inseguire il filo slabbrato del ragionamento da cui ero partito, e in fondo chi se ne frega dei ragionamenti, siamo in quarantena, mi viene anche in mente quel passaggio del film The Simpsons, inutile star qui a ricordare come ci siano molte, troppe connessioni tra quella Springfield e la nostra povera Terra oggi, altro che Contagion di Soderbergh. Nel passaggio del film The Simpsons c’è Kent Brockman, il volto del telegiornale di Springfield, che in tv legge il suo ultimo telegiornale, la fine di tutto imminente. Approfittando, immagino, di questa situazione, Brockman chiude il suo servizio lanciando un lungo elenco di nomi di persone che sono gay. Un elenco che scorre velocissimo sullo schermo, ma che è poi stato ovviamente oggetto di discussioni, beato tasto stop. Idea che ho trovato geniale, a partire dal fatto che Matt Groening, creatore della serie, sia il primo nome posto proprio in cima alla lista lanciata da Brockman. Poco conta che Groening non sia gay, è il pensiero che conta. Del resto esistono libri come Hollywood Babilonia, di Kenneth Anger, che liste di quel tipo le cita con dettagli e particolari, andando però a parlare di attori e registi, e senza neanche l’ausilio di trovarsi a Springfield, la città immaginaria dei Simpson. A me, all’epoca, l’idea piacque tanto al punto da finire come ultimo capitolo del mio Il Libro Nero Dell Musica Italiana, mia versione molto punk del libro di Anger dove, al posto di attori e registi, c’erano i nostri cantanti. Non parlavo di omosessualità, in realtà, quasi mai, la faccenda dell’omofobia, lo dico per i più analfabeti all’ascolto, non era vera, ma raccontavo le cosiddette leggende metropolitane che erano oggetto di chiacchiere e di dietrologie nel mondo della musica. Il tutto raccontato con parecchia ironia, a volte anche con sarcasmo. Un libro che ho scritto in trentatré capitoli e mezzo, come i giri degli LP, ma che non ho mai pubblicato, tutti gli editori spaventati dalla mole di querele che ci sarebbero, dicevano, piovute addosso. Oh, se le cose si mettono male magari lo pubblico online adesso, tanto i tribunali sono chiusi. Tutti questi cantanti sono gay, e via a seguire. Tanto è evidente che in una situazione come questa, chi ha visto serie come The Walking Dead ha ben presente quanto il testosterone sia fondamentale in certi momenti,  roba da maschi veri, i primi a partire saranno proprio gay e hipster, non corro certo rischi.

Comunque, torniamo a noi, suppongo si sarà capito che sto provando a sdrammatizzare una situazione piuttosto drammatica giocando la carta del politicamente scorretto, che è molto spesso protagonista del mio stile e quindi dei miei scritti.  Lo faccio male, perché sono stanco e sciatto, come chi vive in casa e facendo telelavoro si mette la camicia per le conference call in video, ma sotto hanno i pantaloni del pigiama e le ciabatte. Gioco col politicamente scorretto così, un tot al chilo, sapendo quel che rischio, ma chi se ne frega. Anzi, no, abbiate pietà di me. Del resto credo sia noto a chi mi legge che il privato degli artisti non è mai oggetto del mio interesse, spesso anche il loro pubblico mi sembra poco rilevante, figuriamoci, non andrei manco a dire che Tizio è gay, saranno cazzi suoi, letteralmente. Allora, nello scrivere quel libro, e anche un po’ oggi, con questo mio reiterare frasi disturbanti, mi interessava e mi interessa colpire l’ipocrisia del sistema musica, come quello di chiunque, non certo i cantanti, anche se spesso sono gli stessi cantanti a dimostrarsi ipocriti. Della loro vita in sé non mi è mai fregato nulla, e nulla continua a fregarmi. Se dico che qualcuno mi fa cagare è perché mi fa cagare quello che canta e come lo canta, non certo per l’uso che fa del suo culo. No, scusate, non voglio più neanche proseguire su questa strada. Sono ondivago, lo ripeto, cambio idea ogni due minuti.

E in questo mio ondivago cambiare idea ogni minuto, cambiare stato d’animo ogni minuto, manco fossi un ricchione (giuro che smetto, portate pazienza, volevo dire manco fossi una donna… io per altro sono marchigiano, nessuno direbbe ricchione nelle Marche, al limite recchione, sentitevi le canzoni di Fabri Fibra prima che duettasse con Tiziano Ferro per credere), mi ritrovo un attimo a guardare i miei cari con lo sguardo di chi ha vissuto una vita, o almeno la porzione relativa di vita in cui il determinato caro è entrato a farne parte, trentadue anni per quel che riguarda Marina, mia moglie, diciotto Lucia, quattordici Tommaso e otto i gemelli, mi ritrovo un attimo a guardare i miei cari con lo sguardo di chi ha vissuto una vita, ci siamo capiti, pensando di poterli proteggere, con la mia presenza, la sicurezza economica data dal lavoro, le attenzioni che non ho mai lesinato, anche quel talento e quelle competenze che magari loro, i cari, danno per scontati, ma il resto del mondo, più o meno, mi riconosce, e un attimo dopo sono lì a guardarli in cagnesco, se non addirittura con quella forma di intolleranza che, in genere, imputi ai minus habens, tipo i leghisti. Un attimo vorresti abbracciarli tutti, sei lì a applaudire fuori dalla finestra, un secondo dopo guardi tuo figlio con lo stesso sguardo del ranger texano che ha appena scoperto un negro che sta provando a portargli via il televisore nuovo dal salotto di casa.

In questi giorni non so quante volte avete ripetuto o vi siete sentiti ripetere “quando tutto questo sarà finito”, in genere associato a frasi che intendono dare non tanto un senso a questa situazione, perché gli eventi catastrofici della vita difficilmente sono razionalmente spiegabili, quanto più un significato, una ipotesi di crescita, tipo “quando tutto questo sarà finito daremo tutti un valore diverso ai gesti semplici della vita”, “quando tutto questo sarà finito avremo altre scale di valori”, magari con l’aggiunta di un retoricissimo “finalmente”. Ecco, io non so quante volte in questi giorni avete ripetuto o vi siete sentiti ripetere “quando tutto questo sarà finito”, per dire, ieri Francesco, otto anni, in una telechiamata a quattro con suoi compagni di scuola su Whatsapp ha detto, l’ho sentito con le mie orecchie, “Quando finisce il Coronavirus ha detto mamma che posso organizzare un pigiama party”, detto come se si trattasse non solo di fine imminente, ma anche un qualche cosa programmato, come un film, altre due ore e possiamo cambiare canale, ma questa è altra storia, io non so quante volte in questi giorni avete ripetuto o vi siete sentiti ripetere “quando tutto questo sarà finito”, ma per parte mia credo che quando tutto questo sarà finito, dando per scontato che sarà finito e che sarà finito presto, fatemi per qualche secondo essere serio, non solo avremo in qualche modo cambiato il nostro approccio alla vita, come quando si vola in mongolfiera costretti a liberarci di pesi superflui per non andare a picco e sfracellarci sulle scogliere sottostanti, ma ci saremo finalmente detti che quello che abbiamo fin qui mostrato al mondo non era esattamente la parte più vera di noi stessi. Intendiamoci, nulla contro le menzogne o le maschere, si fa per riflettere a voce altra, mentre di là i gemelli litigano per una partita di Ruzzle. Anzi, aspettate un attimo che vado a brutalizzarli, perché va bene tutto, ma mica si può stare a urlare tutto il giorno, che cazzo.

Eccomi. Dicevamo? Ah sì, il rivedere le nostre priorità, le scalette dei valori, quelle minchiate lì.

Oggi mi ero imposto di parlarvi del nuovo singolo dei The Dream Syndicate, la band di Steve Wynn da qualche tempo tornata su piazza in maniera roboante e appena uscita con un brano della durata di venti minuti e ventisei secondi, The Regulator, di quelle che non solo ti dicono e dicono anche agli altri, quelli che non ci credevano o che neanche lo avevano mai saputo, che le chitarre sono vive e vegete, anzi, mai come in questi tempi del cazzo, tutti gnegne e psicosi, sono un’ancora di salvezza, una bussola puntata verso nord, ma che il Paisley Underground, la scena musicale di cui i The Dream Syndicate, Steve Wynn in testa, sono stati e sono faro centrale, scena che provava a mischiare, riuscendoci alla perfezione, lo sguardo onirico della psichedelia con la furia selvaggia del punk, il tutto con spruzzi di folk, di garage, Dio che voglia avrei, per dire, di mettermi a parlare di Rudi Protrudi e dei suoi The Fuzztones, ma filologicamente dovrei invece star qui a citarvi i Thin White Rope, i Green On Red di Chuck Prophet, anche lui da poco fuori come fossimo esattamente nel 1983, o i Long Ryders, non avessi già messo una dietro l’altra quattordicimila battute circa, il corrispettivo di circa sette articoli dei miei sedicenti colleghi, molti dei quali rientrerebbero nella famosa lista alla Kent Brockman di cui sopra, giuro ora la smetto.

Volevo parlarvene, giuro, perché credo che mai come oggi la musica di un certo tipo, quella suonata perché va suonata, non per mere strategie di mercato, ditemi voi chi tirerebbe mai fuori un singolo di venti e passa minuti nell’epoca in cui tutti, penso da noi a chi guida la FIMI, dice che il futuro è tutto su Tik Tok, e già solo parlare di futuro metterebbe i brividi, adesso, ecco, penso che mai come oggi, la musica di un certo tipo, quella suonata perché va suonata, quella suonata davvero in modo particolare, sia qualcosa su cui ricostruire una volta che tutte le macerie che stiamo vedendo ora saranno raccolte e portate in discarica, la famosa ripartenza, il rinascimento, insomma, quella roba lì, ma poi mi è passato sott’occhio un video diverso, e tutti i miei propositi sono andati in fumo, svaniti, puf.

Perché quando dentro il mio smartphone è arrivato questo video, forse un fake, girato a sua volta con un altro smartphone, in un quartiere popolare di Napoli, lo confesso, non c’è stato Steve Wynn che tenesse, Dio salvi sempre e comunque il rock, perché Cornutone cantato in coro da un intero quartiere, lì dai balconi, dalle finestre, è uno spettacolo che, come ha giustamente detto Ghemon su Twitter, andrebbe passato il venerdì sera a prescindere dal momento che stiamo vivendo, come appuntamento fisso. Comunque, non so se vi renderete conto, un brano degli Squallor che è una sorta di monumento pop all’amore e all’amore tradito. Di più, all’amore tradito, certo, ma metabolizzato e digerito, al punto da aver fatto di un dolore vissuto, le corna subite, un’arma con cui ripagare chi quel dolore ci ha inflitto. Una canzone immensa, per altro, come struttura armonica di rilievo, con un testo che è una fotografia di stati d’animo e che usa figure retoriche, dalla miss al cornutone medesimo, talmente nitide da essere quasi cinematografiche. “Tu sì ‘nu figl’e bucchine senza core, ciò fai mman e’ marenari” e “pe’ ‘nu vase ‘ncoppa ‘na zizza, pe’ stu cazz’ che nun s’arrizza senza ‘e te, allisciame stu bebbè”, credo siano due frasi che andrebbero insegnate in tutte le scuole di scrittura creativa, non solo quelle musicali.

So, perché non è che la clausura mi abbia del tutto privato della lucidità, che mischiare alto e basso non va più di moda, perché il postmoderno è morto, l’avant pop è addirittura stato dimenticato, senza passare dalla fase “revival”, e più in generale provare a disinnescare la realtà giocando sull’ironia viene considerato esercizio sterile, snob, un po’ da stronzi (il tutto per altro a causa di un discorso citatissimo ma affatto capito di David Foster Wallace, uno che l’ironia l’ha usata a profusione, che ha sempre giocato tra alto e basso e che infine si è ucciso, come le menti migliori della mia generazione, vedi anche Mark Fischer). So tutto questo, ma so anche, torniamo al discorso del batterista di Quasi Famosi, che in questo momento di quello che pensano gli altri mi può fregare meno di un cazzo. Figuriamoci, non mi è mai fregato nulla neanche in tempo di pace, di quello che pensavano gli altri, non è che in questo la contingenza abbia inciso poi molto.

Per cui lo grido a gran voce, con la voce però rotta dall’emozione, magari, per aver visto la foto di un gattino, o incrinata di rabbia perché qualcuno dei miei figli non ha scaricato bene in bagno, evviva l’irrazionalità del ventiduesimo giorno di clausura.

Credo, e lo credo fermamente, che Cornutone sia un grande, un grandissimo pezzo.

Come credo, e lo credo fermamente, che The Regulator sia un grande, un grandissimo pezzo. Degno di The Days of Wine and Roses, l’ho scritto.

Evviva gli Squallor, evviva Steve Wynn e i suoi The Dream Syndicate.

Sapessi fare un mash-up, ma giuro che non ho idea di come si faccia, li mash-upperei tra loro, roba che solo a pensarci mi sanguinano gli orecchi. Ma tanto è inutile imparare ora a farlo, il mondo sta per finire, allisciateme stu bebbè.

P.S.

Nessun omosessuale è stato maltratto nella stesura di questo scritto. Purtroppo qualche analfabeta funzionale sì.