45 anni fa usciva Young Americans di David Bowie, la prima volta nel soul del Duca Bianco

Dopo un passato glam-rock Bowie seppe dare sfogo alla sua ossessione per la black music


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Una prima volta nel nono album è possibile, e questo fu ciò che accadde in Young Americans di David Bowie, il disco della svolta pubblicato il 7 marzo 1975. Ziggy Stardust si era suicidato e l’artiglieria del glam rock era stata riposta sottoterra. Su Marte, ovviamente.

Proprio da Marte il Duca Bianco tornò sulla Terra e finalmente trovò l’occasione per dare sfogo alla sua ossessione per la black music: proprio a Young Americans, infatti, dobbiamo il significato di “R’n’B bianco”, visto che Bowie con questo disco dimostrò che poteva fare ciò che vuole dal momento che lo stile gli era sinonimo.

Forse in un moto di senso di inadeguatezza Bowie definì il nuovo genere “plastic soul”, una sorta di genere soul plastificato, non genuino come le origini volevano ma forte della creatività di un uomo che sapeva far diventare oro qualsiasi cosa toccasse. Sì, perché lo diremo fino ad annoiarci: David Bowie trasformava in oro qualsiasi cosa prendesse con sé, ora con la sua voce e ora con il suo potere ipnotico da compositore di talento quale era.

Immaginare il Duca Bianco lontano dai viaggi mentali extraterrestri e dunque ben ancorato al pianeta, attento al fermento e alla spiritualità black tanto da ricorrervi spiazzò un po’ i suoi aficionados e per questo Young Americans storse nasi e sguardi. 8 tracce che erano 8 capolavori. Riascoltare oggi questo disco significa dare ragione all’articolo che DailyBest gli dedicò pochi giorni dopo la sua morte, a partire dal titolo: “I 10 motivi per cui David Bowie è già immortale”, un pezzo che si chiude con l’indirizzamento al sito supbowie.com che riporta le 69 ragioni (l’età del Duca) per cui “David Bowie è più figo di te”.

Young Americans di David Bowie si collocava in un contesto ancora difficile: il pregiudizio razziale, il disprezzo per lo straniero e la relegazione della black music a un atto di un popolo che il KKK chiamava “scimmie”. Il Duca fece questo disco per mostrare un pachidermico dito medio a queste brutte cose, per dimostrare che la musica è la dea che mette in pace tutti, anche chi vuole la guerra.

Nel caldo dell’11 agosto 1974 iniziarono i lavori del disco. Bowie aveva appena portato a termine il Diamond Dogs Tour e il produttore Tony Visconti insieme a Harry Maslin volle sperimentare una cosa nuova: costruire un disco che mettesse in risalto il live acting del Duca, che di certo non aveva nulla da imparare quando si trovava sul palco. Per questo Bowie si ritrovò a lavorare su un album suonato dal vivo all’85%, una strategia che metteva alla prova la sua affinità con la band.

Le prime sessioni furono una vera e propria jam e suonavano proprio come tali, e il risultato finale non fu molto distante dai primi approcci. Young Americans di David Bowie metteva in atto l’esperienza unica ed eterea del Duca, capace di sorvolare ogni testa e sfidare la gravità con ballate che ancora subivano il fascino dello spazio come Win (il sax di David Sanborn si mosse su note ripetute in delay come accadeva in Space Oddity) e Can You Hear Me.

Una forza, quest’ultima, che potrebbe accompagnare ogni riflessione notturna grazie alla sessione d’archi e alla personalità timbrica dei cori soul e alla inimitabile voce di David Bowie. C’era poi quell’episodio, quel tributo che fu Across The Universe, la cover dei Beatles registrata in presenza di John Lennon e che nelle mani del Duca diventò un invito a cena, un appuntamento a Cape Canaveral prima di cercare un discount in orbita lungo il cosmo.

Tutto il resto del disco era un dancefloor inedito: la title track introdotta da due colpi di rullante e una scrollata di pianoforte apriva le danze con freschezza, ma c’era anche quella cosa tremendamente funk che era Fascination che anticipava la sensualissima Right nella quale possiamo ancora sentire tutto il range vocale di Bowie, dal basso all’alto come insegnava Marvin Gaye.

Se Somebody Up There Likes Me (“Qualcuno lassù mi apprezza”) prendeva forse lezione dal padrino James Brown, Fame chiudeva il disco con una scarica di adrenalina. Mentre Fame prendeva vita di nuovo entrò John Lennon nello studio e insieme lavorarono al brano. Funk, soul, r’n’b, groovato e audace, il brano cauterizzava una rottura col passato e suonava a volte come un’improvvisazione – il fill a metà brano fa pensare proprio a uno strano e strutturato ca**eggio – ma in tutti i restanti 4 minuti chiudeva il cerchio in maniera dignitosa.

Abbiamo nominato James Brown e dobbiamo dirlo: amò Fame e in Hot riprese il riff del chitarrista Carlos Alomar, e lo fece intenzionalmente.

Capire cosa ci fosse nella testa del Duca Bianco è sempre stato impossibile, e Young Americans di David Bowie conferma questa falla interpretativa: ieri nello spazio, oggi sulla Terra e domani oltre lo spazio, il cantautore britannico che cadde per puro caso sul nostro pianeta ci insegna ancora oggi che dobbiamo solamente godere di ciò che ci ha lasciato senza mai lasciarci, e sappiamo bene quanto sia patetica ma necessaria e sincera questa sviolinata.