Dogman, sembra una fiaba nera il film di Matteo Garrone

Alle 21.30 su RaiTre il film tratto dalla storia vera del "canaro" Pietro De Negri. Un racconto cupo e disperante, visivamente straordinario. Ottimi gli interpreti, la sorpresa Marcello Fonte ed Edoardo Pesce

Dogman

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Col senno di poi, cioè dopo aver visto Pinocchio, viene da chiedersi se per il ruolo di protagonista di Dogman Garrone non avesse pensato a Roberto Benigni. Perché nel protagonista Marcello Fonte sembra di riconoscere qualcosa della naïveté del Benigni giovane. Ricordiamo anche che, per una di quelle curiose ma talvolta rivelatrici coincidenze, Fonte ricevette il premio di miglior attore a Cannes proprio dalle mani di Benigni. Sarebbe stato, quello, il primo di una lunga serie di riconoscimenti al film di Matteo Garrone, stasera in prima tv su RaiTre alle 21.30. Tra i quali 9 David di Donatello e, ancora per Fonte, il premio come migliore attore agli EFA del 2018, il cosiddetto Oscar europeo.

La singolare natura di Marcello Fonte, “keatoniana” l’ha definita Garrone, è uno dei punti di forza del film. Proprio l’incontro con l’attore spinse il regista, che aveva già cominciato a lavorare al Pinocchio, a tornare sul progetto accantonato di Dogman, che pareva destinato a non realizzarsi più. Fonte diede al film quello che gi mancava: la dolcezza, a stemperare la tragicità d’una storia di sopraffazione e dolore. Grazie, prima ancora che all’interpretazione, alla sua fisionomia particolarissima, di uomo che pare sbucato fuori da un’Italia premoderna, se non addirittura da un mondo altro. Quasi un folletto delle favole. E l’universo fiabesco, più chiaramente dopo Il Racconto Dei Racconti e Pinocchio, è diventato agli occhi di tutti l’elemento d’ispirazione fondamentale del cinema di Garrone.

Effettivamente, pur partendo dalla terribile vicenda del “canaro” Pietro De Negri – il toelettatore di cani che nella Magliana di trent’anni fa seviziò l’amico-aguzzino Giancarlo Ricci detto Er pugile –, in Dogman non c’è alcuna preoccupazione cronachistica o strettamente realistica. Garrone disloca la vicenda, della quale resta solo lo scheletro, in un altrove senza coordinate riconoscibili. Dispone i protagonisti in uno spazio segnato da uno squallore che non pare il risultato di un degrado ma un dato di fatto oggettivo, la terribile natura del mondo in quanto tale. Ed è un mondo appunto astorico, in questo senso fiabesco, senza che l’aggettivo possa far pensare a qualcosa di carezzevole.

L’unica dolcezza è nello sguardo di Marcello (Fonte) che cura con affetto i suoi animali, arrotando un “amooore” indirizzato persino alle bestie più feroci. Se c’è un amore è quello per la figlia con cui, nei rari momenti in cui fa immersioni subacquee o immagina favolosi viaggi alle Maldive, riesce a svincolarsi dalla durezza del quotidiano. Il suo “quartiere”, se così vogliamo chiamarlo, è una landa brulla e cenciosa che si apre allo sguardo d’un mare cupo e privo di bellezza – Garrone ha scelto come location il litorale domizio già de L’Imbalsamatore e Gomorra.  Lì vive Simoncino (Edoardo Pesce, bravissimo), un energumeno che taglieggia e terrorizza tutti a cavallo d’una motocicletta che lo fa sembrare il cavaliere, poco virtuoso, d’una fiaba, cocainomane a caccia di soldi zuffe e sopraffazioni.

Con Simoncino – nel nome c’è un omaggio al Simone di Rocco e i suoi fratelli –, Marcello ha una strana amicizia, gli procura la droga, talvolta lo aiuta nei furti d’appartamento. La situazione precipita quando Simoncino vuole rapinare l’adiacente “Compro oro”, facendo un buco nella parete del negozio di Marcello. Che naturalmente non ha modo di rifiutarsi. Il furto rovina i suoi buoni rapporti col vicinato e lo porta dritto in galera, dove sconta una pena di un anno. Al ritorno, indurito e ormai inviso a tutti, medita vendetta. 

In Dogman i rari momenti in cui si respira sono, paradossalmente, quelli in cui ci si trova sott’acqua. Per il resto si è immersi in un asfissiante acquario a cielo aperto, un luogo abitato da uomini che non nutrono sogni ma pensano solo alla sopravvivenza. Un universo di materialità brutale, dove se c’è fiaba – nerissima – è nella descrizione di personaggi non realistici, tipi scolpiti nelle loro caratteristiche immodificabili, senza sviluppi o psicologismi. Anche Simoncino – a parte un breve squarcio nel quale lo si vede insieme alla madre (Nunzia Schiano) – sembra senza passato, storia, motivazioni: continua ossessivamente a essere ciò che è. Lo stesso fa il mondo che gli è intorno, cose e persone che sembrano lì da sempre, immote e immodificabili.

Marcello Fonte vince a Cannes il premio come migliore attore, consegnato da Roberto Benigni

La violenza si consuma sotto lo sguardo indifferente degli animali – è bravo Garrone, in una storia durissima, a non indulgere nella fascinazione dell’orrore. Sono crudeltà che non hanno niente di liberatorio, né risarciscono di un dolore che è un dato di fatto anch’esso oggettivo e inaggirabile. Si esce sconcertati, intristiti dalla visione di Dogman. E si fatica, pur nella perfezione pittorica dell’impaginazione visiva, calibratissima nello squallore imbrattato di colori sporchi e saturi, a immaginare punti di fuga in questa visione implacabile. Garrone ricapitola in questa vicenda tutto il suo cinema, lo interroga e mette alla prova. E ne riemerge con un tono sconsolato e impietoso.

Marcello Fonte regala al film lampi insospettabili, suggerendo con la sua sola presenza un’ipotesi di tenerezza che si smarchi da questo immaginario plumbeo. Nonostante tutto però la cifra di Dogman resta l’assenza di speranza, nella ripetitività mortifera di una parabola che passa circolarmente da una sofferenza all’altra, dalla ferocia alla vendetta. Un cinema di essenziale purezza, ripegato su sé stesso, che non comunica con lo spettatore e non pare nemmeno preoccuparsi di farlo.