I Soliti Ignoti, il capolavoro con Gassman e Totò è l’atto di nascita della commedia all’italiana

Lo straordinario film di Mario Monicelli ha imposto quella singolare mistura dolceamara che è diventata la cifra della comicità nazionale

I Soliti Ignoti

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Oggi è facile dire che I Soliti Ignoti costituisce l’atto fondativo della commedia all’italiana. All’epoca non era facile accorgersene, non fosse altro perché nel 1958, anno di uscita del film, la definizione “commedia all’italiana” ancora non esisteva. Si cominciò a parlare poco a poco di “commedia del boom”, collegando i film a quel grande rivolgimento che fu, esattamente in quel giro d’anni, il miracolo economico. Ma solo dopo l’enorme successo di Divorzio All’Italiana di Pietro Germi, nel 1961, si inizio a impiegare questa etichetta – a pensarci, semplicemente perfetta – di “commedia all’italiana”.

I Soliti Ignoti non nacque sulla base di precise ambizioni autoriali. “Nacque – lo ricordava il regista Mario Monicelli – per sfruttare le costruzioni gigantesche di Visconti per Le Notti Bianche. Cristaldi mi disse che si poteva fare qualcosa con tutta quella roba che gli era costata un occhio della testa”. Ed allora Monicelli e gli sceneggiatori Age, Furio Scarpelli e Suso Cecchi D’Amico si misero a pensare a una storia di ladruncoli, perché uno di loro aveva letto il racconto di Italo Calvino, Furto In Una Pasticceria, in cui una banda scalcagnata di furfanti scassina una pasticceria e s’attarda a fare una scorpacciata di dolci. Questa idea nella versione finale de I Soliti Ignoti resta, perché l’improvvisata banda del buco, invece di sgraffignare i soldi dalla cassaforte (la “comare”) si ritrova intorno a un tavolo a mangiare pasta e ceci, come recita con ironia il titolo di cronaca del quotidiano che si vede nel fotogramma finale del film.

Nasce il colpo de I Soliti Ignoti

Tornando a Franco Cristaldi, va detto che con la sua Vides in quegli anni fu il più innovativo dei produttori italiani, al quale bisogna ascrivere il merito di capolavori come Divorzio All’Italiana, Salvatore Giuliano, I Compagni. Per quanto illuminato e visionario, anche lui restava un produttore con le tipiche cautele da botteghino. È arcinoto come, per imporre Vittorio Gassman, Mario Monicelli dovette fare di tutto. Gassman all’epoca era per tutti la quintessenza dell’attore teatrale, respingente per il pubblico medio, in virtù dei suoi tratti nobili, atletici, alteri. Se qualcuno lo ricordava al cinema, era per parti odiose di carogna in film anche americani che lui aveva fatto, con sommo spregio, solo per i soldi. “Tra me e il cinema ci fu antipatia fin dal primo momento – dichiarò – detestavo del cinema la frammentarietà e il caos, e il cinema si vendicava rendendomi rigido, amorfo e antipatico”. Difficile in effetti, con questi presupposti, immaginarlo in un ruolo divertente. Ma Monicelli lo aveva visto a teatro ne I Tromboni di Zardi nel 1956, diretto da Luciano Salce, in cui Gassman interpretava nove personaggi, dando fondo a un’insospettabile vena fregolista. Perciò era certo del suo talento comico.

Il resto è storia: a Gassman furono rifatti i connotati, mascherata la gobba del naso, infilato cotone nelle narici, messo uno spessore sotto il labbro e una parrucca per abbassargli la fronte spaziosa da intellettuale. Insomma, Amleto venne trasformato nel pugile suonato Peppe er Pantera, pure con parlata tartagliante (il celebre “colpo sssscientifico”). Il risultato fu un personaggio che con una certa fantasia l’attore Maurizio Arena, all’epoca popolarissimo, definì un’imitazione di Sordi e sua.

A ulteriore garanzia attorno a Gassman vennero messi dei nomi di richiamo: Marcello Mastroianni, che stava allora passando a ruoli più pensosi (Le Notti Bianche) e che qui torna alla commedia popolare – è un fotografo disgraziato che più che al colpo deve pensare al pupo, dato che la moglie è in galera –, Renato Salvatori, la stella di Poveri Ma Belli e, soprattutto, Totò, in un magnifico piccolo ruolo, lo scassinatore in pensione Dante Cruciani.

Monicelli aveva una lunga frequentazione con Totò, l’aveva diretto in alcuni dei suoi film migliori, Totò Cerca Casa e Guardie E Ladri. E c’è qualcosa di simbolico in questo Totò che dà lezioni di scassinamento alla banda del buco: “Lui è lì – come ha scritto Jean A. Gili – a fare da legame tra uno stile che muore e uno che nasce, tra un certo tipo di commedia di cui è stato maestro e un altro tipo che lo lascerà da parte”. E qui veniamo alla natura particolare, ovviamente evidente solo in chiave retrospettiva, de I Soliti Ignoti, la prima vera commedia all’italiana, posta su una soglia, un’opera bifronte con un volto rivolto al passato di cui si nutre e l’altro a un futuro di cui stabilisce le coordinate.

Scassinatori (e nuovi attori) a lezione da Totò

L’ambientazione del film è ancora quella da commedia popolare del secondo dopoguerra, con personaggi appartenenti a un milieu sociale inconfondibile, piccolissima borghesia e proletari, di cui si ritraggono con bonomia debolezze e tribolazioni del quotidiano. L’influenza neorealista aveva poi imposto alle commedie del tempo un tratto di veridicità, con le autentiche strade e le facce di italiani della porta accanto. I Soliti Ignoti, in continuità con questa tradizione, impiega non attori come l’incredibile Tiberio Murgia “Ferribotte”, un sardo che a Roma campava facendo il lavapiatti in un ristorante a via della Croce. O pesca caratteristi sconosciuti come Carlo Pisacane, Capannelle, con la sua fisionomia incongrua, proveniente da un’Italia destinata di lì a poco a scomparire.

Questi elementi si combinavano con qualcosa che si sarebbe rivelato nuovo. L’attenzione alla cronaca era più minuziosa che in precedenza. Il soggetto de I Soliti Ignoti sicuramente è una risposta parodica a Rififi e i gangster movie americani ma, come ricorda Maria Pia Comand, “nasce anche dalla cronaca dei tempi, dall’esplosione di microcriminalità che rimbalzava sulle pagine dei giornali. Un riferimento all’‘équipe milanese’ sembra rimandare alla vicenda meneghina della banda di via Osoppo che occupò le pagine dei giornali del tempo”. L’Italia strapaesana e idillica di Pane, Amore E Fantasia viene messa definitivamente da parte. Il nuovo cinema racconta la metropoli e lo sguardo sotto la bonomia comincia a farsi più amaro. Questo anche per ragioni formali. Il film ha una fotografia dura, del grande operatore Gianni Di Venanzo, con un bianco e nero raffinato e in prevalenza notturno. E il film è ritmato dalla colonna sonora jazz di Piero Umiliani che inocula una sotterranea nevrastenia molto moderna.

La storia poi osa: non dimentichiamo che I Soliti Ignoti è la prima commedia in cui muore un personaggio, il ladruncolo Memmo Carotenuto. “Era qualcosa di nuovo – è Age a parlare –, me lo fece notare Germi quando disse che dopo I Soliti Ignoti ormai nel film comico si poteva fare di tutto”. Certo, i personaggi provengono ancora dal popolo, non siamo ancora alla commedia di solo un paio d’anni successiva in cui emergono i nuovi borghesi o aspiranti tali de Il Boom o Il Sorpasso inebriati e anche a loro agio col consumismo e il benessere. La banda del buco col benessere non sa ancora come relazionarsi – e infatti forse non lo desidera neanche realmente, questa è la tesi di Maurizio Grande che parla per I Soliti Ignoti di “vocazione al fallimento” –, però comunque è attratto da un mondo nascente di opportunità cui, seppure maldestramente, vorrebbe accedere.

Da sinistra Gassman, Monicelli, Totò e Salvatori sul set

Questi compresenti elementi contraddittori – anche di natura psicologica, se seguiamo Maurizio Grande – plasmano il film e dànno forma all’anima multiforme della comicità singolarissima della commedia all’italiana. Un misto, come ha detto Monicelli, di “buffoneria e disperazione”, che ha antenati illustri che rimandano sino, è sempre Monicelli a rivendicarlo, ai personaggi della commedia dell’arte, che sopravvivono alla fame e alla povertà canzonando ferocemente il loro gramo destino. Esattamente quello che sosteneva Totò quando diceva che “la miseria è il copione della vera comicità”.

I Soliti Ignoti però questa tradizione comica italiana la consegna, attualizzandola, ai nostri tempi. Fa una fotografia in presa diretta degli umori del quotidiano e li proietta sullo schermo, ritraendo i nuovi italiani e mettendoli (mettendosi) alla berlina. Da qui origina il peculiare punto di vista del nostro cinema comico, con il suo grottesco sommesso che ci restituisce la nostra natura deforme. A Gassman rifanno i connotati, rivelandone dunque un’anima che da qualche parte dentro di sé doveva esserci. E la commedia all’italiana sarà, come recita uno dei titoli più celebri di Dino Risi, una galleria di mostri, di abnormità fisiche (Guglielmo il dentone di Sordi) o caratteriali (e nell’uno e nell’altro caso di abnormità morali).

Quasi tutti i film di questo filone saranno nutriti da una preoccupazione che scolpisce la natura intima del genere: la paura degli italiani di essere, sotto sotto, dei cialtroni. La commedia all’italiana è una storia di perdenti, di gente che non si sente mai all’altezza della propria immagine pubblica e delle aspettative sociali. La commedia all’italiana è il lettino dello psicanalista dell’italiano medio.

I Soliti Ignoti: la buffoneria recitata e l’amara verità