Milano È Dove Mi Sono Persa di Mietta è una delle canzoni più potenti in un’estate di tormentoni loffi e inesistenti

Il nuovo di Mietta è estremamente interessante ma si deve scontrare con un mercato trasformato, che non premia più la qualità

mietta

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La prima regola del Fight Club è non parlare mai del Fight Club.

Conoscete già questo slogan. Non tanto grazie a quel gran bel libro di Palahniuk, ma più per bocca del Tyler Durden portato sugli schermi dalla coppia Ed Norton/ Brad Pitt tutti l’abbiamo sentita e, con buona probabilità, anche ripetuta in più occasioni, quando abbiamo voluto ironizzare su chi ci stava chiedendo conto di qualcosa di cui non volevamo parlare.

Perché questa faccenda della prima regola del Fight Club è un po’ come dire che i maghi non devono mai svelare i propri trucchi, o del “chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni”. Detto in modo diverso, ma il succo è questo.

Quindi io, che nello specifico al momento sono il mago che state guardando, dovrei fare tutto fuorché quello che sto per fare. È come se, a torso nudo, ammaccato e insanguinato nel garage interno di un supermercato o nel retro di un bar, stessi per svelarvi le regole del Fight Club.

Il fatto è che Tyler Durden, protagonista bipolare di Fight Club, il romanzo e il film, nei fatti ci svela tutte le regole del Fight Club, anche se nel farlo ci tiene a farci sapere che la prima regola del Fight Club è non parlare mai del Fight Club. Come certi maghi, si pensi sempre all’Ed Norton del film The Illusionist, ci svelano alcuni trucchi, certo per poterne mettere in atto di più complessi e imprevedibili.

Ecco, fate conto, quindi, che io al momento stia mettendo in atto un trucco complesso e che per mettere in atto questo trucco compresso debba in qualche modo svelare dei trucchetti da principianti. Trucchetti da principianti, e poi smetto di fare meta-narrativa, lo giuro, che comprende questo mio dirvi che sto facendo un trucco più complesso etc etc.

Il fatto è che da qualche tempo a questa parte, diciamo circa gli ultimi cinque anni, mesi più mese meno, vengo considerato uno che stronca. Il cattivo, lo stronzo, quello che si deve sempre lamentare di tutto, il cavaliere nero. Potrei provare a dire che non è vero, che si tratta di una lettura superficiale di quello che faccio, o metterla su un altro piano, che al sistema in fondo faceva comodo una voce fuori dal coro, anche per mettere ulteriormente in evidenza i tanti leccaculo che continuano a dirvi quotidianamente che tutto è bellissimo. Ma questo sarebbe fare un trucchetto con le carte, roba da dilettanti, andare a un Fight Club e pensare di potersela cavare dando uno schiaffetto al tizio muscoloso e con gli occhi da pazzo che abbiamo di fronte. Qui invece siamo di fronte a qualcosa d’altro, ve l’ho detto. È vero, sono quello cattivo, lo stronzo, quello che si lamenta sempre di tutto, il cavaliere nero. Lo so, sono io a scrivere le cose che scrivo, io a bullizzare artisti, promoter, addetti ai lavori, io a parlare dei colleghi definendoli leccaculo. Ma questo è parte del trucco, quello che vi sto raccontando non perché voglia mandare a puttane la regola non detta dei maghi, non perché vi voglia spiegare le vere regole del Fight Club, ma perché raccontandovi tutta la verità, si fa per dire, sto distraendovi gesticolando animatamente con la mano sinistra mentre con la destra faccio qualcosa che non dovete vedere, vi sto introducendo al Fight Club per mostrarvi uno scenario molto più devastante.

Nel corso di questi cinque anni mi sono divertito, ho trovato il campo da gioco praticamente deserto, fatta eccezione dei coristi, appunto, quelli che dicono tutti le stesse cose, che battono sempre le mani, in questi cinque anni mi sono divertito a essere quello che diceva le cose senza filtri. Consapevole delle conseguenze, sia rispetto al sistema, dentro il quale mi muovevo e mi muovo, seppur da outsider di lusso, ma anche consapevole di cosa percorrere questa strada mi avrebbe poi permesso. E le conseguenze e ciò che mi è stato poi permesso è quanto in effetti è successo, puntuale. Outsider ero e outsider resto, dentro il sistema, anche con una visibilità notevole, una autorevolezza dovuta ai numeri, certo, ma anche al riscontro che chi opera dentro questo mondo mi ha tributato, volente o nolente, ma pur sempre outsider, quindi illuminato bene, molto bene, ma lontano dal centro, e al tempo stesso, in virtù di questa illuminazione quasi accecante e di questa autorevolezza, so di suonare arrogante, ma i maghi in genere devono fare un po’ i cazzoni, è gente che divide le persone a metà o è capace di levitare a mezz’aria, suvvia, in virtù di questa illuminazione quasi accecante e di questa autorevolezza mi sono potuto permettere e mi permetto tutti i giorni di fare esattamente quello che voglio. Il che si traduce, puntualmente, nel parlare di cosa ritengo necessario raccontare, spesso continuando a lasciare cadaveri alle mie spalle, tanto per dar seguito alla leggenda che mi vuole pazzo e assetato di sangue, ma al tempo stesso andando a dar voce a chi al momento sembra un po’ fuori dai giochi, si tratti di giovani emergenti, di artisti non necessariamente giovani che per ragioni che spesso evidenzio non possono sembra rientrare nei giochi, si veda la questione del cantautorato femminile, o di artisti che un tempo erano nei giochi, volendo che erano anche i protagonisti dei giochi, ma che oggi sembrano vivere in un multi-universo in cui la realtà è solo musica demmerda per bimbiminkia sparata in streaming e la musica vera, non necessariamente solo la musica alta o difficile, anche la musica pop, è da considerare morta e sepolta.

I due lati della medaglia, io pazzo invasato che lancio un boccale da un litro pieno di birra nel pub affollato alle mie spalle, come Begbie, pronto a menare le mani, e io che come Il Piccolo Principe coltivo rose sotto la campana di vetro si auto-alimentano. Perché fossi solo Begbie sarei sparito da tempo, fagocitato da quello stesso sistema che ho provato a movimentare e anche a abbattere a suon di roncolate, si vedano quelle due o tre inchieste andate a buon fine, e perché fossi solo quello che coltiva rose sotto la campana di vetro non mi si filerebbe probabilmente nessuno, troppo di nicchia o troppo poco connesso col mondo attuale, fatto di click e di views. Sempre trucchi e regole del Fight Club, in buona sostanza.

Che poi, lo so, alla fine rischio di passare per un bipolare vero, anche se ci sono casi letterariamente comprovati che le due anime possano convivere, si pensi al caso pop del Jean Reno di Leon di Luc Besson.

Oggi proverò a fare una cosa che raramente mi riesce. Essere al tempo stesso Begbie e il Piccolo Principe. Prendere cioè a testate in faccia il sistema, ma al tempo stesso coccolando un po’ di bellezza, e provando a preservarla e al tempo stesso a mostrarvela.

Succede questo, e mentre mi leggete provate a immaginarmi nei panni dell’Edward Norton di The Illusionist, succede che dopo circa sette anni di silenzio artistico, anzi, dopo circa sette anni di silenzio e basta, perché nonostante ci siano stati live e altro, niente di nuovo è uscito in questo lungo lasso di tempo, Mietta torna sul mercato con un singolo molto ma molto interessante, Milano È Dove Mi Sono Persa. E qui già abbiamo un primo problema, adesso immaginatemi nei panni di Edward Norton, sempre, ma con una mascella sfondata dal colpo che si è auto-inferto per uccidere il suo alter ego Tyler Durden, impermeabile indossato su boxer e scarpe, Helana Bonham Carte tenuta per mano, primo problema che consiste nel dare una definizione univoca e chiara per tutti di “mercato”. Perché quando Mietta aveva pubblicato i suoi ultimi lavori, sette anni fa, appunto, si parlava ancora di commistione di fisico e download, ancora con qualche dubbio sul futuro della discografia, un settore industriale, non dimentichiamolo mai, che prende il nome dai “dischi”, non dagli streaming o dagli MP3. Oggi, invece, a sette anni di distanza, tutto è cambiato, ma proprio tutto tutto. I dischi non esistono praticamente più. Gli streaming hanno mandato a casa i download, al punto che iTunes presto sarà un ricordo di un passato che faremo di tutto per dimenticare. Ultimo, si fa per dire, gli artisti che un tempo erano il centro del mercato, oggi sembrano talmente marginali da non essere più tenuti in considerazione da chi gestisce la partita, maltrattati in fatto di rendicontazione e, soprattutto, maltrattati e basta. Chi un tempo veniva considerato artista oggi viene considerato un peso, qualcuno a cui un discografico con buone probabilità non risponderà al telefono. A prescindere che sia decaduto in reale disgrazia, perché artisti maltrattati all’ennesimo flop ci sono sempre stati. Se non sei uno che fa milioni di streaming o di views sei una merda, e se anche li fai non è detto che non torni presto a essere la nullità che eri fino a qualche giorno fa. L’apocalisse, insomma.

Uno potrebbe essere portato a pensare che questo dipenda dal fatto che gli artisti che hanno mosso grandi numeri in passato non siano più in grado, oggi, di fare musica al passo coi tempi. E poco importa se la musica al passo coi tempi sia spesso musica orribile, senza dinamica, schiacciata, compressa, basata su tre accordi e cinque note di melodia, sempre le stesse. Uno potrebbe essere portato a pensare che questo dipenda dal fatto che ormai anche i media tengono conto del medesimo gusto vigente su Spotify e affini, dove artisti come una Mietta, in genere, non passa.

La realtà è ovviamente diversa, e proprio Milano È Dove Mi Sono Persa lo può serenamente e pacatamente dimostrare. Perché che Mietta fosse artista dotata non solo di grande talento vocale e interpretativo, quello è da almeno trent’anni sotto gli occhi e le orecchie di tutti, ma che fosse anche una capace in continuazione di evolversi, di cambiare pelle, di mettersi in gioco, solo a guardare la sua carriera avremmo dovuti saperlo tutti. Una che ha esordito in maniera così classica da giovanissima, si pensi al trittico sanremese Canzoni, con cui vinse Sanremo Giovani nel 1989, Vattene Amore con Amedeo Minghi del 1990 e Dubbi No, l’anno successivo, e che poi, solo quattro anni dopo, si presenta con quell’agglomerato di funky e sperimentazione sonora e vocale che è Daniela è Felice, prodotta da colui che si è inventato il Jovanotti Jovanotti, Michele Centonze, che altro dovrebbe dire di più? Ma Mietta ha continuato a dire, a fare, a recitare, cantare, cambiare pelle, fino a arrivare a oggi, dove ribaltando il paradosso del Daniela è felice di quei tempi, canzone in cui in realtà si parlava di infelicità e depressione, si descrive come una Daniela è depressa, oggi che è invece quantomai felice e a fuoco, realizzata, risolta. Tutte caratteristiche che la canzone in questione, prodotta da un Diego Calvetti stranamente ispirato, così moderna nei suoni, così solida nella composizione, così miettiana nel modo di cantare, una voce potente e sicura, fuori dal tempo, possiede e mostra con pragmatico orgoglio. Una canzone, questa, che potrebbe serenamente stare in una qualsiasi Playlist di Spotify, se solo Spotify ragionasse per meriti e non per algoritmi e interessi degli attori che l’abitano, Universal e Sony in testa, e che altrettanto serenamente potrebbe passare in una qualsiasi delle nostre radio, da quelle in cui Mietta dovrebbe essere di casa fissa, come Rtl 102,5, Rds o Radio Italia, a quelle un po’ più sofisticate, come Deejay.

Invece Mietta e la sua Milano È Dove Mi Sono Persa corre il rischio di perdersi in questa sputacchiera che si crede un oceano che è la nostra attuale scena musicale. Perché Spotify è gestita in quel modo lì, impalpabile e impenetrabile, ma con una certa tendenza a considerare vecchio chiunque abbia più di trent’anni, e Mietta nonostante sembri eternamente una ragazzina ha più di trent’anni, e perché le radio, al momento, seguono a pecora quello che passa il convento, cioè la stessa Spotify, convinta che a andare dietro loro recupereranno parte del proprio pubblico, poveri illusi.

So che parlare di Mietta per mettere in risalto questo paradosso, la discografia che si suicida gettandosi nel burrone per sfuggire al proprio assassino che vorrebbe gettarla dal medesimo burrone, è a sua volta un paradosso. Perché avrei potuto usare un nome più attuale, magari una Malika Ayane, che è sullo stesso crinale ma sta per fare X Factor da giudice. Ma a me di seguire le regole, e torniamo all’incipit di questo articolo, lo avrete capito, non frega un cazzo. Mi chiamo Tyler Durden e vi spiego le regole del Fight Club. Sono l’illusionista che mostra i trucchi. Sono Begbie che lancia boccali dopo aver innaffiato le rose sotto la campana di vetro, e Begbie oggi prenderebbe a testate tutti quelli che non ammettono che in questa estate di tormentoni loffi e inesistenti una delle canzoni più potenti è proprio Milano È Dove Mi Sono Persa di Mietta. Uomo avvisato.