Pretty Woman, la commedia romantica senza tempo con Julia Roberts e Richard Gere

Appuntamento alle 21.25 con il celebre film diretto da Garry Marshall. Un po’ Cenerentola, un po’ Pigmalione, è la storia di una disillusa prostituta e d’uno spietato mago della finanza a cui l’amore cambia la vita. Un classico

Pretty Woman

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È notizia di qualche giorno fa che la favola di Pretty Woman, l’unico, autentico cenerentola-movie di fine millennio, in origine fosse parecchio diversa. In un’intervista incrociata su Variety tra Julia Roberts e Patricia Arquette, all’epoca entrambe in ballo per il ruolo principale, le attrici hanno rivelato la vera storia del film. Il copione scritto da J.F. Lawton in origine s’intitolava 3000 – un riferimento piuttosto crudo al compenso per la “prestazione professionale” della prostituta protagonista – e prevedeva un finale drammatico in cui, ricorda la Roberts, “lui la scaraventava fuori dalla macchina, le gettava addosso i soldi e l’abbandonava in un lurido vicolo”.

La Roberts ebbe la parte, ma la piccola casa di produzione che seguiva il progetto fallì e l’attrice si trovò improvvisamente senza lavoro. Quando però la sceneggiatura venne acquistata dalla Disney fu messa nelle mani di Garry Marshall. Lui, “una persona meravigliosa” dice Julia Roberts, volle contattarla per correttezza, dato che era stata, seppure per soli tre giorni, la protagonista di 3000. Così nacque il Pretty Woman che conosciamo, una storia per stessa ammissione dell’attrice molto più adatta alle sue corde.

Uscito nel 1990, Pretty Woman resta il modello della commedia romantica di fine e nuovo millennio, capace di fondere diverse storie archetipiche – da Cenerentola a Pigmalione – ridando loro smalto e attualizzandole ai tempi di un mondo che evidentemente, sotto la patina dura e arrivista del capitalismo avanzato, ha ancora uno smodato bisogno di fiabe e sogni a occhi aperti.

E gli occhi sono quelli grandi, magnetici, accattivanti di una giovanissima Julia Roberts, che si trovò catapultata in un autentico sogno da Cenerentola di Hollywood, trasformata dall’oggi al domani in una star planetaria. Il film al botteghino raggranellò più di 460 milioni di dollari, a tutt’oggi la cifra più alta di sempre per una rom-com – a essere precisi c’è una commedia romantica del 2016 che ha guadagnato di più, si chiama Mei Ren Yu, però ha ottenuto quasi tutto il suo favoloso incasso, 554 milioni, nella madrepatria cinese ed è praticamente sconosciuta al di fuori dell’estremo oriente.

Ma torniamo a Pretty Woman, che accanto al battesimo di una nuova star segnò anche la rinascita di Richard Gere, che dopo essere stato l’oggetto del desiderio femminile di American Gigolò e Ufficiale E Gentiluomo, era poi incappato in una serie di progetti fallimentari, dal mediocre King David all’ambizioso Cotton Club – uno dei tanti progetti visionari e sfortunati del grande Francis Ford Coppola.

La forza di Pretty Woman è nello sfrenato romanticismo dell’assunto. Lei è Vivian, una giovane prostituta che ha già capito come va il mondo, lui è Edward, mago della finanza esperto nell’acquisire società, smantellarle e rivenderle a pezzi. È il tipo dell’uomo freddo e calcolatore – lo vediamo scaricare al telefono la fidanzata di turno come fosse una pratica da evadere. Trovandosi da solo a Los Angeles incontra casualmente Vivian, ci passa la notte insieme e decide di “affittarla” per la settimana. Ma le cose andranno molto diversamente da come previsto.

Nel descrivere il suo lavoro da squalo della finanza lui dice che “si tratta solo di business”, lei capisce benissimo e ribatte: “Oh allora tu fai quello che faccio io”. Tutto è business insomma. Infatti le prime parole del film, pronunciate da un prestigiatore che fa apparire e sparire soldi, sono: “It’s all about money”. È per questo che alla fine Pretty Woman funziona e non sembra la solita commedia sdolcinata. Le premesse della storia, per quanto ammorbidite e indossate da protagonisti straordinariamente gradevoli, sono tragiche, delineano un mondo asentimentale e utilitaristico. Non sorprende perciò che la prima versione della sceneggiatura fosse drammatica.

E non è un caso che la storia si svolga a Los Angeles, questo luogo in cui la cruda realtà e la fabbrica dei sogni hollywoodiana vivono in simbiosi, l’una l’esatto risvolto dell’altra. Come scrisse un critico all’uscita del film, Vittorio Giacci: “I marciapiedi dell’Hollywood Blv. riluccicano delle stelle e dei nomi dorati dei divi e delle dive del sogno americano, ma su di loro pesa la violenza e la volgarità di una prostituzione che è ormai del corpo come dello spirito”.

È esattamente questa la ragione che spinge il pubblico ad aderire alla favola. Sono talmente spiacevoli il mondo e gli individui che lo abitano che lo spettatore ha bisogno di appigliarsi a qualcosa che gli lasci un barlume di speranza e dolcezza.

Su quegli stessi boulevard molti anni prima Billy Wilder in Viale Del Tramonto aveva descritto Hollywood per quello che è, una maschera messa alla bell’e meglio sul volto a coprire il vuoto morale collettivo di un mondo sempre sull’orlo del collasso. Ma a noi spettatori non interessa sapere come è fatta la vera Hollywood, per essere felici abbiamo bisogno della Hollywood come vorremmo che fosse.

E allora ben venga la tersa, delicata storia d’amore tra Vivian ed Edward, la fiaba della prostituta e del manager spietato che per amore si trasformano in Cenerentola e nel Principe Azzurro, grazie a un cinema riportato alla sua dimensione originaria, ossia la capacità di raccontare e stimolare sogni che cullino il pubblico e addolciscano la vita. È la fabbrica dei sogni bellezza, e non possiamo fare a meno. Non ci descrive la realtà, è ovvio, ma noi speriamo comunque che, nella sua trasognata purezza di cristallo, ci racconti la verità.