Tales of the City su Netflix poteva essere il miglior ritratto dell’odierna comunità LGBTQ, ma annacqua la modernità in storie troppo semplici (recensione)

Il revival dell'omonima serie culto degli anni '90 ha più di un difetto, ma offre svariati spunti di riflessione sui concetti di identità e comunità per giovani e meno giovani.

Recensione di Tales of the City, su Netflix dal 7 giugno

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La comunità LGBTQ è solita evolversi più rapidamente del resto della società e Tales of the City, su Netflix dal 7 giugno, avrebbe potuto e dovuto dipingerne un ritratto quanto mai moderno e fedele alla realtà. Le intenzioni sono buone e i risultati più che discreti, ma considerare le occasioni sprecate fa sbiadire alcuni dei meriti della serie.

La versione di Tales of the City disponibile su Netflix è un revival dell’omonima miniserie ispirata ai romanzi di Armistead Maupin e trasmessa su PBS nel 1994. Gli eventi di quei primi episodi ruotano attorno alla figura di Mary Ann Singleton, giovane originaria dell’Ohio appena arrivata a San Francisco.

È il 1975, le battaglie per i diritti LGBTQ sono già iniziate da un pezzo, mentre il conservatorismo politico e il picco dell’epidemia di AIDS sono ancora lontani. Mary Ann (Laura Linney), nel suo tipico, tenero provincialismo, è stupita e disorientata dalla libertà che si respira in città, e in particolare a Barbary Lane, il microcosmo queer che diventerà il suo nuovo mondo.

Nel piccolo complesso residenziale di proprietà della matriarca Anna Madrigal (Olympia Dukakis), Mary Ann trova una casa, un amore in Brian (Paul Gross), degli amici in Michael (Murray Bartlett), nella stessa Anna e in tanti altri inquilini. I residenti di Barbary Lane sono i colori di un piccolo arcobaleno LGBTQ e vivono una vita attiva e libera, piena di allegria, amore, sesso, droghe e accettazione reciproca.

Questa stessa accettazione torna nel revival di Tales of the City su Netflix, insieme a una dose talvolta eccessiva di dolcezza. Nei nuovi episodi Mary Ann torna a Barbary Lane dopo più di vent’anni trascorsi in Connecticut a inseguire il sogno di una sfolgorante carriera televisiva. La motivazione ufficiale è la festa di compleanno dell’ormai novantenne Anna Madrigal, ma le pessime condizioni del suo matrimonio e un’invincibile nostalgia del luogo la convincono a restare.

Nella nuova Barbary Lane Mary Ann ritrova la figlia Shawna (Ellen Page) e il migliore amico Michael con il giovane fidanzato Ben (Charlie Barnett), oltre ad alcuni ragazzi ben integrati fra loro e ancora una volta espressione dei più disparati orientamenti sessuali. Tra questi la coppia queer composta da Jake (Josiah Victoria Garcia) e Margot (May Hong) e i gemelli influencer Jennifer (Ashley Park) e Jonathan (Christopher Larkin).

Il ritorno di Mary Ann non è ben visto da tutti gli inquilini di Barbary Lane. Anna e Michael ritrovano con lei un’immediata intesa, mentre Brian e Shawna sono comprensibilmente confusi e feriti dalla sua presenza. In fin dei conti la donna si è lasciata entrambi alle spalle per rincorrere un sogno professionale, e non sarebbe normale se una semplice comparsata bastasse per rimettere tutto a posto.

La festa di compleanno di Anna è un tale disastro, per Mary Ann, che una fuga immediata e silenziosa sembra l’unica soluzione possibile. Tuttavia il desiderio di riallacciare i rapporti con la figlia e andare al fondo di un mistero inspiegabile la convincono a rimanere e mettono in moto la narrazione della serie.

Da qui in poi Tales of the City su Netflix abbraccia la fluidità degli orientamenti e delle identità con un senso di smisurato affetto nei confronti dei suoi personaggi. Fin dal primo istante il produttore Alan Poul ha descritto la serie come un omaggio allo storytelling del passato, in reazione all’approccio carico di cinismo, oscurità, cattiveria e irriverenza tipico delle narrazioni attuali.

Il problema, però, è che per raggiungere questo obiettivo Tales of the City pretende di farci affezionare a ogni costo ai suoi personaggi. La conseguenza è che questi finiscono appiattiti in una semplicità deleteria per le infinite sfumature della comunità LGBTQ odierna.

La serie sembra insomma essere una manifestazione più ampia e impalpabile della personalità di Mary Ann. Avvertiamo quindi un po’ troppo l’ansia da prestazione, un entusiasmo indomabile che è quasi zelo, una patina fiabesca che vela le vite in Barbary Lane anche in momenti dal forte potenziale drammatico o di ribellione.

Ogni evento sembra mediato dall’esistenza stessa di Barbary Lane, che agisce come un balsamo su esperienze di vita e sofferenze. Sarebbe di certo catartico se ci riuscisse in quanto rifugio da una società a dir poco ambivalente nei confronti delle persone LGBTQ. Invece, la sua azione protettiva e riparatrice riduce la portata di dialoghi, scontri e riflessioni profondamente urgenti.

Alcuni dei più chiari esempi di questo appiattimento sono gli stati d’animo di Shawna dopo il ritorno di Mary Ann, l’evoluzione del rapporto tra Margot e Jake e l’artificiosità dei gemelli Jennifer e Jonathan.

Nel primo caso, la miriade di sentimenti che devono aver scosso Shawna alla ricomparsa della madre perduta si perdono fra attimi di umorismo secco, storielle senza vincoli e un’interpretazione monoespressiva da parte di Ellen Page.

Nel secondo, una questione fondamentale come la mutevole percezione dell’identità di genere da parte di Jake viene esplorata solo come causa del fallimento della relazione con Margot.

Nel terzo, infine, la modernità dei gemelli e della loro ossessione per i social media non guadagna il trattamento benevolo riservato ad altri personaggi. Al contrario i due diventano figure caricaturali scollegate dal contesto e prive di una vera funzione narrativa.

Un altro, non trascurabile problema di Tales of the City su Netflix è la lunghezza spropositata. Il rapporto fra Mary Ann e Shawna, la relazione tra Margot e Jake e tra Michael e Ben, il segreto di Anna, tutto sarebbe apparso maggiormente vivido e appassionante se la narrazione fosse stata più rapida e scarna. Ciascuna storyline si dipana infatti con un’esasperante lentezza che non apporta nulla di nuovo o interessante per lunghissimi minuti, tra un evento rilevante e l’altro.

Che la serie possa essere incisiva nei suoi momenti più concisi e palpitanti lo si intuisce in due circostanze ben precise: quando Shawna dà sfogo alla tristezza davanti a Eli e Inka a New York, e Ben e Chris si scontrano durante la cena a casa di Harrison.

Il primo episodio mostra uno dei rari momenti in cui i sentimenti di Shawna prendono il sopravvento sull’ermetica compostezza delle sue reazioni abituali. Il secondo è un crudo, realistico e pungente momento di scontro generazionale, in cui la transfobia di un uomo gay di mezza età, indurito da un passato doloroso, si scontra con l’atteggiamento politicamente corretto di un omosessuale ventottenne.

Al netto di queste considerazioni, Tales of the City su Netflix resta una serie valida, orgogliosa com’è verso il microcosmo LGBTQ di Barbary Lane. La sua forza è nel contributo dato alla rappresentazione della comunità, non condannata alla marginalizzazione ma protagonista assoluta grazie a vite e vicende che meritano di essere raccontate.

Produzioni del genere, che siano legate o meno a successi del passato, sono fondamentali per la normalizzazione delle più svariate dinamiche queer sullo schermo. Perché è solo mostrando l’intimità, l’estetica, ogni peculiarità delle persone LGBTQ che si può sfuggire alle generalizzazioni imposte dal pregiudizio o anche solo dall’ignoranza.

È probabile che Tales of the City si senta investita di un’eccessiva responsabilità e finisca per essere un po’ troppo didascalica, ma la sincerità tanto auspicata da Alan Poule c’è e si vede. E a dispetto di qualsiasi semplificazione e occasione sprecata, è sempre una gioia celebrare l’incontro fra una serie televisiva autenticamente inclusiva e una piattaforma disposta a garantire pari opportunità e libertà di espressione.

https://youtu.be/R63GxIGAaZw