Il futuro della musica in Italia non è la trap, come il futuro dello sport non è il baseball

Quando frequentavo l'oratorio, provarono ad imporci il baseball: mazze e guantoni furono sostituiti immediatamente dal pallone da calcio!


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Quando facevo le medie un giorno è successa una cosa che, potenzialmente, avrebbe potuto cambiare la vita di me e di molti miei amici, lì al campetto di San Francesco alle Scale. Già solo chiamarlo campetto, a ripensarci oggi, fa capire come da piccoli, da giovani, da giovanissimi, si tenda a guardare al mondo con ottimismo, visto che si trattava di una colata di cemento grezzo, bruzzoloso. Lo dico con una certa regionevole certezza perché ancora oggi ne ho prova sul gomito destro, dove si trovano sei evidenti punti, messi con non troppa competenza al Pronto Soccorso dell’Ospedale Umberto I di Ancona, quando ancora esisteva. Era successo che un tizio piuttosto buffo che frequentava il campetto, tizio di cui non ricordo più neanche il nome, noto per il suo modo di correre piuttosto legnoso, che lo faceva sembrare una sorta di burattino, mi era venuto addosso come una furia, facendomi rotolare in terra, e lasciando che un pezzo della carne che si trovava attaccata al mio gomito rimanesse lì, grattugiata dal cemento armato. Poi era anche successo, e questa cosa per anni è stata oggetto di una mia narrazione epica, vagamente alla Rambo, eroe nazionalpopolare di quei tempi, che dopo avermi messo i punti, e avermi fasciato il gomito, nel momento dei medicamenti, un dottorino non troppo pratico mi abbia tagliato via un altro pezzo di carne, stavolta nell’incavo del braccio, non avvedendosi che non stava tagliando solo la garza, fatto che ha lasciato un’altra cicatrice. Due al prezzo di uno. Ma non è questa la cosa che, potenzialmente, avrebbe potuto cambiare la mia vita. Questa al massimo ha cambiato l’estetica del mio braccio, due punti da una parte e sei dall’altra, ma considerando che ho anche due cicatrici nell’addome, regalo di altrettante operazioni di ernia avute quando avevo pochi mesi, direi che a cicatrici, son messo bene. Anzi, a ultimare il pacchetto c’è arrivata, molto più recentemente, una ampia macchia sul dorso del piede destro. È successo il 28 dicembre del 2011, lo ricordo anche questo con una certa cognizione di causa. In casa nostra erano arrivati da poco più di tre mesi Francesco e Chiara, i nostri rispettivi terzo e quarto figlio. A ridosso del Natale tutti e sei eravamo scesi in Ancona, per le vacanze, con l’idea, sacrosanta, di riposarci un po’. Specie mia moglie Marina aveva necessariamente bisogno di riposarsi. Come sempre da anni a ridosso del capodanno è stata organizzata una partita di calcetto coi miei amici di gioventù. Non quelli con cui giocavo al campetto di San Francesco alle Scale, altri, ma praticamente miei fratelli. Stavamo lì a giocare, pensando già alla cena che avremmo fatto subito dopo le docce, quando, a un paio di minuti dalla fine arriva una palla alta. Noi giochiamo, anzi, nel mio caso specifico, giocavo, a calcetto come fosse il calcio, lanci lunghi, cross, palle alte. Arriva questa palla alta e io salto. Alle mie spalle salta anche Paolo, uno dei miei più cari amici, marito della migliore amica di mia moglie. Paolo è alto circa un metro e novanta. Buona stazza. Io sono alto un metro e settantacinque. Saltiamo e Paolo mi crolla sopra. Tutti, lì nel campo, sentono il crack della mia caviglia destra. Io, personalmente, sento anche il dolore lancinante. Lui, Paolo, sente i sensi di colpa. Sa come le vacanze di Natale siano per noi, specie per mia moglie Marina, qualcosa di necessario per la salute mentale. Dobbiamo riposarci, passeggiare, essere spensierati. Abbiamo battezzato i gemelli solo due giorni fa, oggi è il 28 dicembre e abbiamo una decina di giorni per non pensare a niente, la famiglia a sollevarci un po’ dal peso dei gemelli. Invece Paolo mi cade sopra e si sente un crack. Paolo esce di testa. Prende una bomboletta di ghiaccio spray e me la spara sulla caviglia. Da molto vicino. Da vicinissimo. Praticamente attaccata. Io mi alzo, a stento, corro verso lo spogliatoio, prendo i vestiti, il giaccone, salgo in macchina. So che ho pochi minuti, poi non riuscirò più a muovermi. Corro verso casa, ma prima mi fermo in farmacia. Compro creme, garze, cerotti. Poi vado a casa, dissimulando solo stanchezza. Vado a farmi la doccia e mi fascio come meglio riesco. Dico che non avevo voglia di stare a cena con gli amici, e tutti ci credono. Siamo sfiniti, del resto. Il giorno dopo striscio per casa. Marina mangia la foglia, ma io dico che non è niente, un normale contrasto di gioco. La caviglia comincia a gonfiarsi, ma almeno per quella giornata usciamo. Passeggio trattenendo il dolore come un ninja. La sera vado anche a una riunione di lavoro. Poi arriva la botta vera. Non riesco più a muovere la caviglia. Marina diventa una furia. Mi accusa di tutto quello che vi può venire in mente, dallo scandalo Modigliani all’omicidio di Laura Palmer. Io fingo che sia una cosa passeggera, ma la caviglia si sta gonfiando in modo un po’ troppo strano. Si sta formando una strana bolla, enorme. Passati tre giorni la bolla ha la forma di una palla da baseball, e fra un po’ arriviamo anche a quello. Decido che forse è il caso di fare qualcosa. E siccome non sono uno scienziato, per dirla alla Feltri, posto la foto della mia caviglia malconcia su Facebook, chiedendo aiuto ai miei amici dottori. Mi risponde una mia carissima amica, che lavora in effetti in ospedale. E mi dice che forse è il caso che io corra immediatamente da lei. La faccio breve, ho un’ustione tra il secondo e il terzo grado sul collo del piede, dovuta alla bomboletta spray appoggiata sulla carne viva. La mia amica mi dice che se Paolo avesse sparato lo spray sul calzettone probabilmente me lo avrebbe fuso con la carne, come in un fumetto di Alan Moore. Fortunatamente è solo una ustione di secondo e terzo grado, con una lesione al legamento della caviglia. Mi dice che o curo l’una o curo l’altra, al momento. E mi dice che se non curo l’ustione potrei morire di setticemia. Opto per curare l’ustione, capirete bene il perché. In poche parole la mia amica mi toglie la pelle bruciata, scarnificandomi la caviglia. Me la disinfetta. Poi mi di mette sopra una sorta di ostia, ben più ampia della macchia lasciata scoperta dall’ustione. Si tratta di pelle sintetica, l’ostia. Il tutto in diverse sedute, alle quali vengo accompagnato da mio padre, perché io non posso guidare. Fatto che, lo capirete altrettanto bene, fa sì che Marina covi nei miei confronti un risentimento piuttosto profondo, perché abbiamo una macchina molto grande, siamo in sei, e lei non è abituata a portarla. Quindi siamo sempre chiusi in casa. Durante la vacanza che lei aveva immaginata fatta di grandi passeggiate e relax. La mia amica mi dice che questa cosa, il togliere la pelle bruciata dalla mia caviglia, di scarnificarla, di curarmi, le piace un sacco. Lo dice mentre io, un po’, soffro. E sicuramente a lei, alla mia amica, il fatto che io soffra non piace affatto. Ci vogliamo molto bene, da sempre, andavamo a scuola assieme da piccoli. No, le piace perché le piace fare il suo lavoro. Ovviamente io che ho visto tutte le puntate di E.R-Medici in prima linea e di Gray’s Anatomy la capisco. Ma meno del solito. Le voglio ancora molto bene, anche perché in qualche modo ha risolto il problema. Solo che ora ho una macchia più scura nel collo del piede. Quella macchia lì. Per altro, tornato a Milano, la mia dottoressa di base ha dovuto tagliare il bordi che sporgevano di quella specie di ostia, che nel mentre si era fissata come mia nuova pelle. Esperienza non dolorosa ma un filo schifosetta. E sempre per altro, siccome noi siamo dovuti comunque tornare a Milano alla fine delle vacanze di Natale, perché avevamo due figli che andavano a scuola, il mio amico Paolo, arso vivo dai sensi di colpa, mi passerà la metafora, si è caricato le mie valige in spalla e mi ha caricato la macchina insieme al mio amico Angelo, io ho guidato con una sola gamba, manco fossimo in America, e all’arrivo il mio amico Gianni, Gianni Biondillo, ha fatto l’operazione inversa, ha scaricato la macchina e ha portato su tutte le valige. Vedi gli amici. A quel punto, questo aveva detto la mia amica, avrei dovuto curare anche i legamenti, perché una volta aggiustata l’ustione quello era il problema da risolvere. Ma la vita milanese non aspetta, quindi i legamenti si sono aggiustati da soli, un po’ a cazzo. Così oggi, quando è brutto tempo, cioè sempre, mi fa un po’ male la caviglia, come tutte le altre ossa che mi si sono rotte negli anni, quasi sempre per faccende legate al calcio, per altro. Tutte tranne la clavicola destra, rotta cadendo da una panchina mobile, di quelle da giardino, su cui ero saltato, convinto che fosse saldata a terra, durante un concerto dei Kunsertu a una Festa dell’Unità dalle parti di Caprese Michelangelo, in Toscana. Anche lì si trattava dei primi giorni di una vacanza, la sola vacanza avuta durante il mio servizio civile, e mi guardai bene dal dichiarare il dolore, anche mentre poi dormivo in terra, dentro la nostra tenda a due posti, sempre per non far incazzare Marina. Marina che, a questo punto, potrebbe apparire ai vostri occhi come una donna irascibile, anche piuttosto autoritaria, e che invece è la donna più bella del mondo, con la quale ci amiamo da circa trentadue anni, pochi mesi in meno. Chiaro, non ho più giocato a calcio da quel 28 dicembre 2011, e non sono più saltato su panchine semoventi, ma questa è un’altra storia. La clavicola, per la cronaca, me la curarono a Ancona, tornato dalla licenza. E me la curarono male, sempre lì all’Umberto I. Perché prima mi misero un cerotto che bloccava la spalla, una roba nuova, dissero, che avrebbe sostituito le imbragature. Una cosa nuova che però mi irritò a tal punto da ustionarmi il petto, ho uno strano karma con le ustioni, e che per altro mi fece capire bene cosa significasse, allora, farsi la ceretta con gli strap, perché il tipo che me l’aveva messo, il cerotto, non mi aveva prima depilato, cosa che avvenne in maniera piuttosto violenta e dolorosa al momento di togliermi il cerotto. Poi mi imbragarono, con una sorta di otto di gommapiuma che mi faceva stare con le braccia sollevate. Immaginatemi così, con le braccia sollevate come uno che mima un aereo, una imbragatura di gommapiuma a bloccarmi le spalle e una ustione irritante al petto. La giusta punizione per uno che salta sulle panchine ai concerti dei Kunsertu, gruppo di merda.

Ma non è neanche questa la cosa che, potenzialmente, avrebbe potuto cambiare la vita di me e di molti miei amici, lì al campetto di San Francesco alle Scale. Questa cosa succederà più avanti, nel 1994, venticinqua anni fa. La cosa che, potenzialmente, avrebbe potuto cambiare la vita di me e di molti miei amici, lì al campetto di San Francesco alle Scale avvenne nella metà degli anni ottanta, nella prima metà. Avevo da poco abbandonato il violoncello per sposare il calcio. Dimostrando per altro che quanto sosteneva il mio maestro di violoncello, Moscardelli, era vero: se giochi a calcio ti rompi ossa e cartilagini. Confermo. Avevo da poco abbandonato il violoncello per sposare il calcio e stavo facendo la solita partitella della durata di quattro, cinque ore con i miei amici. Quando di colpo arrivano alcuni signori della parrocchia. Dire alcuni signori non è corretto, perché li conoscevo tutti molto bene. Erano i genitori di alcuni di noi. Non di noi che giocavamo a calcio, va detto, ma di noi ragazzini della parrocchia. Uno era pure mio cugino, per altro, il padre di Alberto di cui vi ho parlato tempo fa, a proposito dello scherzo fatto a Don Lorenzo. Comunque ci sono questi signori della parrocchia che arrivano, entrano in campo, fermando la partita, prendono il pallone in mano e ci comunicano che da quel momento il campetto di San Francesco alle Scale, il nostro campetto, diventa il campo della locale squadra di Baseball. Così, senza tanti preamboli. Poi ci dice anche che tutti noi faremo parte della squadra di Baseball, e nel dirlo tirano fuori da un paio di borsone, tipo quelle da calcio, delle tute. Sono bianche con righe verticali nere, come fossero delle api albine. Tirano fuori i guantoni, che ci lanciano al volo, e delle palline. Non tirano fuori le mazze, e su questo nessuno si è posto interrogativi. Da quel momento, per due anni, abbiamo dato vita alla locale squadra di Baseball. A noi, noi ragazzi del campetto di San Francesco alle Scale, del Baseball non è mai fregato nulla. Giocavamo le partite, certo, per altro perdendo quasi sempre, e lo facevamo su campi di calcio che la momento venivano adattati all’uopo. Io ero una interbase, anche un po’ portata per la battuta, perché nello sport sono sempre stato più votato all’attacco che alla difesa. Ma il Baseball mi faceva piuttosto cagare, come a tutti. Durante gli allenamenti, fatti lì al campetto, con il bel tempo, come nella palestra della Parrocchia dell’Annunziata, giocavamo tutti a calcio, però vestiti come delle api albine. Anche prima delle partite ufficiali, che si tenevano al campo della Real Conero, nella strada che da Portonovo porta verso Sirolo, all’altezza di Massignano, c’era sempre qualcuno che tirava fuori una palla. All’epoca non c’erano canali sportivi che mostrassero partite di Baseball. Non c’era modo di farci affascinare da uno sport che, per di più, ha regole complesse, statistiche difficili da seguire. Come ho avuto modo di dire altrove, quell’esperienza mi è servita per capire come essere figli di chi conta, nello specifico il Presidente della squadra, comportasse vantaggi notevoli, il ruolo di catcher, quello con l’armatura che sta dietro il tizio con la mazza, ma che questo non comporta né mai potrebbe comportare diventare quel che non si è, nello specifico uno bravo a giocare a Baseball, perché il figlio del Presidente era un coglione che in effetti giocava come un coglione, solo vestito in maniera molto figa. E questa esperienza, durata due anni e poi naufragata nel nostro totale disinteresse, per altro a pochi mesi dall’inaugurazione del primo campo da Baseball vero e proprio apparso in Ancona, mi ha anche spiegato che non si può imporre così, senza preamboli e spiegazioni, senza soprattutto lasciare scelte, tradizioni che non ci appartengono. Prima o poi arriverà qualcuno che tirerà fuori un pallone e tutto andrà in vacca.

Tutto questo per dire cosa? Semplice, che quando sento certi espertoni di musica dire che il futuro della musica italiana sta nella trap, perché solo i nostalgici guardano a chi scrive le canzoni suonando gli strumenti, e solo quelli fuori dal mondo pensano che prima o poi tornerà di moda la chitarra,  cominciando a ridere di gusto penso a quando quei signori della Parrocchia di San Francesco alle Scale hanno provato a convincerci che da un momento all’altro avremmo dovuto giocare a Baseball, lasciando il calcio, perché quello era il nostro futuro. Quei signori lì, gli Jacopo Pesce del nostro oratorio, sono durati due anni, poi ci hanno visto correre dietro un pallone e si sono ritrovati un paio di borsoni da calcio pieni di tute bianche con righe verticali nere e di guantoni usati. Come era normale che fosse. Così succederà a breve nel mondo della musica, spero.