Che fare quando il mondo è in fiamme?, storie di razzismo dall’altra America

Il documentario di Roberto Minervini è il nuovo tassello di un percorso nel quale il cinema si fa strumento di denuncia, attraverso tre storie di emarginazione della comunità nera della Louisiana.

Che fare quando il mondo è in fiamme?

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Che fare quando il mondo è in fiamme?: il titolo preso da un vecchio gospel (che in originale suona What You Gonna Do When the World’s on Fire?), l’ultimo documentario di Roberto Minervini, passato in concorso all’ultima Mostra di Venezia, è il nuovo capitolo del percorso che il regista marchigiano ha intrapreso per raccontare lo stato della Louisiana.

Italiano di nascita ma cinematograficamente di formazione americana, Minervini mutua il suo linguaggio dal cinema diretto di D.A. Pennabeker, col quale ha anche collaborato, e continua, dopo la precedente trilogia sul Texas, una ricerca sconsolata e coerente sull’altro lato dell’America (il precedente film si chiamava infatti Lousiana: the other side). Stavolta Minervini racconta la Baton Rouge di oggi, uno dei luoghi più disastrati dell’intero stato, con una forte presenza della comunità di colore rifugiatasi lì da New Orleans dopo l’uragano Katrina.

Ed è una comunità che vive in condizione di generale indigenza e paura, come si evince dalle tre vicende esemplari raccontate da Che fare quando il mondo è in fiamme?: quella di Judy, giovane donna con un passato pesantissimo di violenze domestiche e tossicodipendenza, che cerca in ogni modo di non perdere la proprietà del suo bar; la storia dei fratelli Ronaldo e Titus, 14 e 9 anni, e della madre che cerca di tutelarli dal difficile contesto; e poi le riunioni, le marce, le manifestazioni delle Nuove Pantere Nere per l’Autodifesa, il partito rinato per difendere la comunità di colore, costantemente sotto assedio in un paese in cui può accadere che la polizia spari in pieno petto a un venditore ambulante (Alton Sterling), o che si consumino crimini efferati, come la decapitazione di un uomo di colore a Jackson, Mississippi, dove le Pantere si recano per indagare sull’accaduto.

Il tono, anche per la fotografia in un bianco e nero saturo e contrastato, è duro e diretto. La macchina da presa elimina quasi completamente i luoghi dall’inquadratura – a lungo non è esplicitato dove si sia esattamente – per concentrarsi su corpi e parole dei protagonisti. È un film quindi la cui attitudine apertamente politica e di denuncia non deriva dalla ricostruzione puntuale dei presupposti storici e ambientali, ma s’affida all’evidenza fisica dei personaggi, la cui sofferenza, le cui storie sono già scritte sulla geografia dei loro volti ritratti in primo piano. Che è il modo in cui Minervini toglie la maschera alla realtà per mostrarne l’autentica fisionomia.

Che fare quando il mondo è in fiamme? racconta storie di emarginazione e razzismo che lo sguardo del cinema impegnato di Minervini cerca di restituire senza derive estetizzanti ed evitando il sensazionalismo miserabilista. Non mancano pagine che si imprimono nella memoria: il peregrinare senza meta dei due ragazzini, l’unico momento di sospensione nella generale cadenza tragica della narrazione; l’incontro tra Judy e una tossicomane, col cui dramma solidarizza in forme che possono suonare francamente immorali – la incita addirittura a drogarsi – e che pure sono spia di una sofferta, contorta empatia; i canti martellanti delle pantere nere che gridano alla strada l’iniquità della politica statunitense; e infine la cornice del film, i rituali di preparazione dei costumi per il Mardi Gras da parte di una comunità di nativi americani, a creare una connessione ideale tra il destino degli indiani e degli afroamericani.

Che fare quando il mondo è in fiamme? è un’immersione plumbea in un mondo che si preferirebbe non guardare. Una realtà ineluttabilmente orfana, come quel personaggio, di cui s’intuisce la vita difficile, che addirittura non sa dove sia sepolta la propria madre, e Judy pazientemente l’accompagna al cimitero per fargliela rincontrare, e il tono è di inattesa dolcezza. La mancanza però di un collegamento esplicito tra storie individuali e contesto che le ha prodotte, tra  cause ed effetti dà al racconto una cadenza non solo disperata ma irrimediabile, come di un destino immodificabile che grava sugli uomini, quasi indipendente dalla loro volontà, tanto individuale quanto collettiva. E la struttura del film resta a livello di abbozzo, in cui i singoli episodi, pur emotivamente lancinanti, non raggiungono mai la lucidità e la coerenza dell’affresco di denuncia.

https://youtu.be/o6SWtbIBzkA