Intramontabile Dirty Dancing, dopo trent’anni è ancora un film da prima serata tv

Stasera alle 21.20 su Canale 5 c'è per l'ennesima volta il film che ha reso una stella Patrick Swayze. Anche se il segreto del suo successo, forse, è da imputare più alla protagonista femminile, Jennifer Grey. Ripercorriamo la storia di questo cult del cinema romantico.

Dirty Dancing

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Che Dirty Dancing a 32 anni dall’uscita nei cinema riesca ancora ad assicurarsi una prima serata televisiva di massimo ascolto, alle 21.20 su Canale 5, è il segno che s’è conquistato una dimensione di classico. Destino in effetti ben poco prevedibile all’epoca, dato che si trattava di un film di budget modesto e senza grandi star – non lo era allora Patrick Swayze, che rappresentò oltretutto una scelta di ripiego, dopo che Billy Zane (futuro cattivo di Titanic) era stato scartato perché non sapeva ballare e Val Kilmer, cui il ruolo era stato offerto, s’era rifiutato.

Sulle prime, vuole la leggenda, i produttori lo trovarono talmente brutto da pensare di distribuirlo direttamente in home video. Fortunatamente per loro, cambiarono idea. E Dirty Dancing si trasformò in un successo dai molteplici record: incasso globale di oltre 200 milioni di dollari (ne era costati solo 6) e una colonna sonora balzata immediatamente al primo posto in classifica trainata da (I’ve Had) the Time of My Life, che vinse anche l’Oscar. E quando, alla fine, il film uscì in videocassetta, fu il primo della storia a superare il milione di copie vendute.

Come si fa a spiegare un fenomeno simile? I detrattori (che hanno le loro ragioni, il film è decisamente mediocre) sostengono che il successo dipenda dal romanticismo da fotoromanzo condito con un pizzico di furba pruderie – i presunti balli “peccaminosi” promessi dal titolo, in realtà si vede ben poco –, ideale per accalappiare un pubblico alla caccia di emozioni elementari. Ma il ragionamento non convince, i film con questa ricetta sono legioni, eppure nessuno ha ottenuto il successo di Dirty Dancing. Il segreto non sembra essere nemmeno la chimica tra i due protagonisti Johnny e Baby, che insieme funzionano ma fino a un certo punto, così diversi, il macho Swayze e la minuta Jennifer Grey, che fu lui stesso a suggerire perché era stata sua partner in Alba Rossa di John Milius.

Ecco, però se la scelta di Swayze è prevedibile – il maschio alfa al fondo romantico che recita gran parte del tempo a torso nudo per la felicità delle spettatrici, ovvio target di questo classico chick flick –, quella di Jennifer Grey lo è molto meno. Perché lei è davvero la ragazza della porta accanto, graziosa ma ordinaria e di impalpabile sensualità. Apparentemente sembra l’attrice sbagliata per il ruolo: e invece, a pensarci meglio, è assolutamente perfetta, non solo perché la sua normalità fa scattare l’identificazione d’un pubblico di adolescenti normalissime (la Baby del film ha diciassette anni, sebbene l’interprete ne avesse dieci di più), ma anche perché sposta l’attenzione dalla bellezza ad altre qualità. Così Dirty Dancing, finisce per proporre un modello di femminilità più moderno, che punta su intelligenza e carattere.

In effetti è Baby il vero motore dell’azione: la ragazza che matura confrontandosi col primo amore e che riesce a tenere testa al padre – il quale non può vedere di buon occhio lo scapestrato Johnny – senza però trincerarsi nella ribellione fine a sé stessa, ma invece cercando un dialogo cui il genitore, meno coraggioso, sfugge. È un’immagine femminile con tratti di novità, all’altezza di quel decennio di forti trasformazioni nel costume e nei rapporti uomo-donna che furono gli anni Ottanta. Una giovane donna che sogna ancora l’amore romantico, ma ha anche piena consapevolezza della propria sessualità e dei proprio desideri. E quando si trova di fronte a una situazione difficile – aiutare o meno un’amica ad abortire – è ancora lei che prende in mano la situazione, optando per una scelta pragmatica e priva di tentennamenti. Perciò, sebbene non sia il caso, come fa qualcuno, di parlare di “sovversivo capolavoro femminista”, si può riconoscere che al di là della trama parecchio trita, Dirty Dancing segni un passo in avanti nella rappresentazione della donna, su cui dice cose non così scontate.

Altro elemento essenziale, ovvio, è rappresentato dalle scene di ballo, che occupano almeno un terzo del film: una ricetta perfettamente in linea con i tempi, dato che si era reduci dal grande successo d’una doppietta di film musicali come Flashdance e il giovanilistico Footloose. C’è poi una terza leva, meno vistosa: l’effetto nostalgia. Infatti il film, uscito nel 1987, è ambientato nell’estate del 1963 ossia, come dice Baby in voice over, “prima dell’assassinio di Kennedy e dei Beatles, quando credevo ancora nell’impegno civile e che al mondo non esistesse un altro uomo oltre a mio padre”.

Insomma un’epoca percepita come più semplice, non ancora segnata dai traumi sociali e politici che avrebbero cambiato la storia del paese, facendolo maturare ma anche togliendogli l’illusione dell’ingenuità. Non è un caso che Dirty Dancing sia ambientato esattamente nello stesso periodo di American Graffiti (1973), il film di George Lucas che ha stabilito le regole canoniche della nostalgia cinematografica; e nell’alba degli anni Sessanta si muovono anche i giovani studenti de L’attimo fuggente (1989), che sebbene chiusi dentro una scuola autoritaria vecchio stampo assaporano il tonificante piacere di cominciare a pensare con la propria testa e sperimentare i propri desideri. Esattamente quello che fa, a modo suo, anche Baby.