Sully, stasera in tv Clint Eastwood e Tom Hanks raccontano il “miracolo sull’Hudson”

Alle 21.20 su Canale 5 c'è il film sulla storia vera dell'ammaraggio di un aereo nelle acque dell'Hudson. Un racconto sulla centralità del fattore umano. E una sottile riflessione su realtà e finzione nell'epoca della società dello spettacolo. Ammirevole Tom Hanks.

Sully

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Era da un po’ che New York non aveva notizie così belle. Soprattutto con un aereo di mezzo”. È una battuta persino ovvia di Sully, il film diretto da Clint Eastwood che stasera Canale 5 manda in onda alle 21.20. Perché l’11 settembre è la cosa a cui chiunque ha pensato assistendo all’ammaraggio del volo US Airways 1549 nelle acque del fiume Hudson il 15 gennaio del 2009, effettuato dal pilota di linea Chesley Sullenberger detto Sully (Tom Hanks), e dal suo secondo Jeff Skiles (Aaron Eckhart), che riuscirono a salvare tutti i 155 passeggeri.

Il “miracolo sull’Hudson”, fu subito ribattezzato dai media: una bellissima favola che idealmente, otto anni dopo, risarciva il paese dalla ferita ancora aperta dell’attentato alle Torri gemelle. Un’immagine cui Sully torna nei suoi incubi ricorrenti, con l’aereo che va a schiantarsi contro un grattacielo.

Sully è uno dei migliori film recenti di Clint Eastwood, grazie anche a Tom Hanks, che offre del suo personaggio un’interpretazione ammirevole per misura, tratteggiandolo come un professionista che non indulge in pose eroiche e che guarda con un certo scetticismo all’entusiasmo scomposto che gli si agita intorno, con gente che lo abbraccia manco fosse una stella del cinema e ospitate al David Letterman Show, alle quali reagisce con imbarazzo.

Oltretutto, al contrario dei media sovraeccitati, la National Transportation Safety Board, l’autorità per la sicurezza dei trasporti, è intenzionata ad aprire un’inchiesta sull’azzardata manovra, che in fin dei conti ha portato alla distruzione di un costoso velivolo. E pur senza trattarsi di mefistofelici sgherri, i burocrati son pur sempre lì per cercare di scovare l’“errore umano” da imputare a qualcuno su cui far ricadere le colpe. L’obiettivo diventa il novello eroe nazionale Sully, che di suo ha già ben poca voglia di atteggiarsi a uomo del giorno.

Tom Hanks insieme al vero pilota Chesley Sullenberger.

Il film non punta sull’alta temperatura spettacolare della tragedia mancata. Ci sono, appena accennati, alcuni elementi codificati del genere catastrofico alla Airport, dal racconto delle microstorie dei passeggeri all’abnegazione del personale di bordo. Ma la ricostruzione dell’incidente è come raffreddata, perché diventa l’elemento di prova oggettiva in quella sorta di processo cui viene sottoposto Sully. Nel quale, come ribadisce il pilota durante la testimonianza alla Commissione d’inchiesta, il tema in gioco è il “fattore umano”: quell’insondabile pezzo dell’ingranaggio fatto di carne, sangue, nervi e cervello che è difficile far rientrare nella logica riduttiva di numeri e algoritmi.

Le simulazioni al computer dell’incidente, realizzate per comprendere nel dettaglio la dinamica dell’ammaraggio, sostengono infatti che sarebbe stato possibile effettuare l’atterraggio in aeroporto, evitando quella spericolata e inusuale manovra. Ma come ricorda Sully, “Tutto è senza precedenti finché non capita per la prima volta”, e nessun pilota è mai stato addestrato ad affrontare un’emergenza del genere. Le ricostruzioni al computer hanno un che di grottesco, più prossime a un videogioco che alla realtà. “Avete eliminato ogni straccio di umanità da quelle simulazioni”, ribatte con fermezza Sully. Da un lato c’è la finzione, quella versione artificiale resa liscia e perfetta grazie all’asportazione di ogni elemento concreto, dell’imponderabilità dei fatti e del fattore umano. Dall’altra c’è la realtà, con al centro l’uomo, col suo bagaglio di competenze, esperienza, istinto. E anche di un cuore, come quello di Sully, che diverse ore dopo l’incidente batte ancora comprensibilmente all’impazzata.

Clint Eastwood ha composto un’opera che, al di là della sua tersa classicità, contiene una riflessione non banale sul rapporto tra realtà e simulazione. Dove la simulazione non è solo quella dell’incidente ricostruito e addomesticato al computer, ma è anche quella della rappresentazione mediatica. Rivedendosi in tv, Sully resta sorpreso da quel doppio in cui non riesce a riconoscersi. E quando gli dicono dell’invito al Letterman show, commenta: “È veramente surreale: sto facendo molta fatica a separare la realtà da qualunque cosa sia questa faccenda”.

Il punto è che la vita vera, una volta registrata, acconciata e ritrasmessa, si trasforma in uno spettacolo, un simulacro che pende molto di più dal lato della finzione che della realtà. Di qui il disagio di Sully, un gentiluomo vecchio stampo che, pur rispettando le ragioni dell’inchiesta e la legittimità delle ricostruzioni al computer, le guarda con scetticismo e preferisce affidarsi al buon senso del bigliettino uscito da un biscotto della fortuna, che riporta una semplice e inoppugnabile verità: “Un ritardo è meglio di un disastro”.

Come il pilota, anche Clint Eastwood è a disagio. E allora da un lato ribadisce le ragioni dell’umanesimo, della centralità del fattore umano che va anteposto a protocolli e algoritmi. Dall’altro però, è consapevole del fatto che persino il suo film, pur confezionato con le migliori intenzioni e ispirato a un fatto reale, resta comunque una messa in scena artefatta, infinitamente lontana dagli accadimenti e dalle emozioni vissute dagli autentici protagonisti.

Perciò nei titoli di coda ha bisogno di mostrare il vero Sully e i 155 passeggeri, per limitare per quanto è possibile il tasso di finzione connaturato al cinema, inseguendo una visione oggettiva e trasparente, che fotografi la pura verità delle cose reali. A pensarci, è esattamente quello che Eastwood ha fatto con il suo film successivo, il sottovalutato Ore 15:17. Attacco al treno. Un’altra storia ispirata a un fatto reale, il gesto eroico di tre giovani americani che sventarono un attentato terroristico a un treno diretto a Parigi nel 2015. Eastwood per interpretare quei ruoli ha preso non degli attori, ma i veri protagonisti. Una scelta sorprendente mossa dalla volontà, probabilmente ingenua, di scrostare quanta più finzione, quanta più simulazione è possibile dal racconto, al centro del quale oltretutto, qui come in Sully, ci sono uomini normali. Un percorso volto alla ricerca dell’autenticità: un obiettivo che pare francamente irraggiungibile. Eppure, a quasi novant’anni, sembra questa l’utopia verso cui si muove Clint Eastwood, il cineasta che non ha ancora finito di stupire.