Netflix, dopo gli Oscar la minaccia è Steven Spielberg. Ma potrebbe venire in aiuto Cannes

Spielberg pare sia intenzionato a fare una campagna per escludere dalla corsa alle statuette i film senza una vera distribuzione cinematografica. Il rapporto tra Netflix e il cinema attende ancora una soluzione. E il prossimo Cannes potrebbe offrire una buona occasione di confronto.

Netflix

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Il 72esimo festival di Cannes è alle porte (14-25 maggio) e i rumours relativi ai possibili film in concorso ripropongono prepotentemente il tema più caldo di questi ultimi mesi: il rapporto difficile tra Netflix e il cinema. Vedremo in concorso l’attesissimo The Irishman di Martin Scorsese o The Laundromat di Steven Soderbergh, entrambi targati Netflix?

L’anno scorso Cannes rappresentò il punto più alto della frizione tra piattaforma streaming e cinema, con la clamorosa esclusione di Roma di Alfonso Cuarón, distribuito da Netflix (non prodotto, ricordiamolo). La pietra dello scandalo ha però finito per costituire la migliore occasione per un ripensamento generale della questione. Perché alla fine Roma, grazie alla confezione da film d’arte e la firma di uno dei più celebrati registi contemporanei, ha costituito per Netflix il perfetto cavallo di Troia per legittimare le sue ambizioni e accedere al salotto buono del cinema – questo non perché Netflix voglia entrare nel mercato della distribuzione cinematografica, ma perché ha compreso che il cinema e i suoi premi arrecano un grande beneficio all’immagine dei film, aumentando il numero di recensioni, amplificando il passaparola e quindi spingendo gli utenti ad abbonarsi alla piattaforma streaming.

Prima il film di Cuarón ha vinto il Leone d’Oro alla Mostra di Venezia; poi, dopo la partecipazione ad altri festival importanti come Toronto e Telluride, è stata la volta di una limitata distribuzione nei cinema (circa 600 sale), che ha consentito la partecipazione alla stagione dei premi. Dove Roma ha fatto man bassa di riconoscimenti, dai Golden Globes ai Bafta, fino alle 10 nomination agli Oscar e le tre statuette pesanti vinte, film straniero, fotografia e regia. Nel mentre Netflix è diventata anche membro della Motion Picture Association of America, la lobby di Hollywood, che comprende tutte le grandi case di produzione cinematografiche, Disney, Fox, Paramount, Sony, Universal, Warner Bros.

Alfonso Cuarón con le tre statuette vinte agli Oscar 2019.

Pace fatta e soluzione trovata quindi? Non esattamente: in primo luogo perché, contrariamente alle previsioni della vigilia, Roma agli Oscar ha mancato la statuetta più ambita, miglior film, andata a Green Book. E alcuni hanno letto dietro questo risultato una presa di posizione dell’ala più conservatrice dei circa ottomila membri dell’Academy, pro Hollywood e contro Netflix, la cui strategia disinibita e spendacciona – una campagna promozionale, pare, da 30 milioni di dollari – l’ha resa invisa a molti.

La seconda criticità è legata all’intervento nel dibattito di una voce autorevole, Steven Spielberg. Il quale, alla vigilia degli Academy Awards, ricevendo il 17 febbraio il Filmmaker Award, aveva detto: “Credo che il più grande contributo che possiamo dare come registi è quelli di offrire al pubblico l’esperienza della visione in una sala cinematografica. Non c’è niente come andare in una grande sala buia condividendo con persone che non hai mai visto prima un’esperienza che ti travolge”. Dichiarazioni che si aggiungono ad altre risalenti al marzo del 2018: “Non credo che film con solo una presenza simbolica nei cinema, distribuiti in un paio di sale per meno di una settimana, dovrebbero essere candidabili agli Oscar. Sempre meno registi cercano di raccogliere fondi o di partecipare al Sundance […], molti di loro preferiscono finanziare i loro film attraverso il canale del video on demand, magari con la promessa di una minima distribuzione in sala, una finestra di una settimana, per poter concorrere ai premi. Ma in realtà, quando ti affidi a una struttura televisiva, il tuo è un film per la tv”, e dunque dovrebbe concorrere agli Emmy e non agli Oscar.

La sua presa di posizione potrebbe avere conseguenze rilevanti, perché Spielberg è anche Governor di uno dei 17 rami in cui sono suddivisi i membri dell’Academy, quello dei registi, e sembra voglia fattivamente impegnarsi per un cambiamento delle regole, che impedisca la candidatura dei film delle piattaforme, Netflix in testa, che rifiutano la distribuzione in esclusiva nelle sale – il punto critico della polemica tra Netflix e cinema riguarda la “theatrical window”, ossia il lasso di tempo che deve intercorrere tra proiezione in sala e su piattaforme, che le norme nazionali tendono a mantenere più o meno ampia (negli Usa sono tre mesi, in Francia addirittura tre anni), e che Netflix invece vorrebbe eliminare del tutto o accorciare drasticamente (per Roma sono state tre settimane, ma solo per l’eccezionalità del progetto e per le pressioni di Cuarón). Il portavoce della Amblin, la compagnia fondata da Spielberg, ha recentemente dichiarato che “Steven sente fortemente la questione relativa alla differenza tra streaming e sala cinematografica, e sarà felice se altri vorranno unirsi alla sua campagna quando verrà proposta [al prossimo meeting del Consiglio d’amministrazione dell’Academy in aprile, ndr]”.

Senza citarlo esplicitamente, Netflix ha ribattuto alle dichiarazioni del regista con un tweet: “Amiamo il cinema. E queste sono alcune cose che pure amiamo: l’accesso per chi non può sempre permettersi il cinema o vive in città senza sale; consentire a chiunque, e dovunque, di apprezzare le uscite contemporaneamente; dare ai registi più opzioni per condividere la loro arte. Queste cose non si escludono a vicenda”.

La questione della visibilità è particolarmente sentita dagli autori, molti dei quali senza Netflix non riuscirebbero a raggiungere una platea così ampia. Perciò le dichiarazioni di Spielberg hanno ricevuto reazioni contrastanti tra gli addetti ai lavori. La regista nera Ava DuVernay ha twittato: “Una delle cose che apprezzo di Netflix è che distribuisce film di artisti neri in lungo e in largo. 190 paesi vedranno When They See Us. Ho avuto un solo film che è stato distribuito dovunque. Non Selma. Non Wrinke in Time. Era 13th. Da Netflix. Questo è importante”. In un altro tweet la regista ha espresso preoccupazione riguardo alla prossima riunione del Board of Governors dell’Academy, nella quale non ci saranno i membri regolari dei rami dell’Academy: “Spero, se questo è vero, che alla riunione siano presenti registi o vengano lette dichiarazioni di autori come me che la pensano diversamente”.

Un altro membro dell’Academy, il regista Joe Berlinger, ha espresso le sue perplessità, cogliendo un aspetto importante: “Dato che la Hollywood tradizionale continua a focalizzarsi su blockbuster globali o film di supereroi, le storie per adulti del cinema indipendente, che fino a ieri sono state una voce importante del cinema, rischiano l’estinzione. L’ingresso di operatori come Netflix dà a questa tipologia di film una nuova vita, e come regista e membro dell’Academy voglio assicurare loro tutte le opportunità che meritano per sopravvivere, indipendentemente dal numero di sale tradizionali nella quali vengono proiettati”.

A fronte di investimenti concentrati su pochi titoli ad alto budget da parte degli studios – che producono molti meno film di un tempo e appartenenti a poche categorie riconoscibili, con il rischio innegabile di un’eccessiva omegeneità dell’offerta –, Netflix ha nel 2018 prodotto circa 80 lungometraggi, con una spesa complessiva, comprendendo dunque anche le serie, che si aggira intorno agli 8 miliardi di dollari. Ciò favorisce una biodiversità del sistema che sta molto a cuore agli autori di film più ricercati, che altrimenti faticherebbero a produrre e rendere visibili opere destinate a pubblici non generalisti. D’altronde i prodotti di nicchia, come si è capito sin dai tempi in cui Chris Anderson teorizzò la “coda lunga”, costituiscono una vocazione specifica della rete, in grado di rendere sostenibili progetti che altrimenti non vedrebbero mai la luce. Esattamente uno dei mercati in cui Netflix riesce a essere straordinariamente competitiva.

Ecco cosa ha dichiarato recentemente Alfonso Cuarón a chi gli chiedeva se gli studios avrebbero avuto il coraggio di investire in Roma. “Certi aspetti del film, l’essere in bianco e nero, parlato in spagnolo e con attrici sconosciute, hanno condizionato il loro modo di guardare al film. Quando ho parlato con Netflix, invece, non è successo niente del genere. Non avevano paura, parlavano dell’aspetto emozionale della storia, questo mostrava il loro interesse per il film. Erano disposti a cambiare il loro modello per accogliere quello che stavamo cercando come autori”. Allo stesso tempo Cuarón insiste sulla proiezione in sala: “Sono un cineasta e credo nell’esperienza in sala. Ma bisogna garantire la diversità. Oggi nei multiplex c’è un’esperienza molto gentrificata, c’è un solo tipo di prodotto con pochissime variazioni. È difficilissimo vedere film d’autore o film stranieri, la maggior parte delle sale proietta solo grandi film hollywoodiani”.

Qui interviene Netflix, che ha grandi capacità di investimento, propensione al rischio, un modello di business funzionale anche per opere di nicchia. Certo, restano elementi di opacità che lasciano perplessi, come il fatto che la piattaforma non rilasci quasi mai dati trasparenti rispetto ai numeri dello streaming o del box office dei loro film proiettati in sala. Ma è chiaro che, in un mercato fluido e in evoluzione, il quale oltretutto si sta aprendo ad altri players che stanno investendo molto sullo streaming, come Disney e NBCUniversal, questa diventa una questione fondamentale per la quale va trovata una soluzione di sistema. Per il bene dei film, degli autori e di un nuovo tipo di mercato, nel quale il cinema sicuramente non avrà più la centralità di un tempo, senza che però questo ne comporti automaticamente l’estinzione.

Robert De Niro e Martin Scorsese sul set di “The Irishman”, il film Netflix che potrebbe concorrere al prossimo festival di Cannes.

Il prossimo festival di Cannes potrebbe segnare un passaggio importante. Perché lo stesso Thierry Frémaux, delegato generale della manifestazione che fino a oggi ha incarnato l’idealtipo del cinefilo integrale nemico di Netflix, pare abbia intenzione di ammorbidire le regole della kermesse, magari accogliendo in concorso un film attesissimo come The Irishman, per il quale il regista Martin Scorsese sta insistendo per una autentica distribuzione nelle sale, con Netflix impegnata a trovare una soluzione. Secondo le indiscrezioni, Frémaux non vuole ritrovarsi di fronte all’impasse del 2018: non intende scontentare le posizioni degli esercenti, ma nemmeno può continuare a perdere terreno rispetto alla Mostra di Venezia, oggi preferita dagli studios hollywoodiani, dato che negli ultimi anni moltissimi vincitori di Oscar sono passati in anteprima al Lido. Le parti sembra stiano confrontandosi su di una soluzione di compromesso: via libera ai film Netflix in concorso, con l’intesa però che, in caso di vittoria della Palma d’Oro, la piattaforma assicuri l’uscita in sala del film almeno in Francia. Nulla è ancora definito. Di certo c’è solo che il sistema attuale non funziona, e che c’è bisogno di nuove regole valide per tutti. Cannes potrebbe essere un ottimo banco di prova per definirle.