Il primo re: Romolo, Remo e le ambizioni del nuovo cinema italiano (recensione)

Matteo Rovere firma un kolossal sulla fondazione di Roma. Parlato in un latino arcaico inventato è un film cupo e spettacolare. Alessandro Borghi conferma il suo talento, in questa che rappresenta una tappa importante per un’industria che guarda sempre più al cinema di genere.

Il primo re

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Il primo re: i fratelli di sangue Remo e Romolo, la fondazione di Roma, un’era e un luogo arcaici, in un tempo scandito dalla violenza, l’ingenuo senso del sacro, i sentimenti elementari di uomini scambiati per divinità che parlano una lingua oscura.

A sintetizzarlo così Il primo re sembra davvero un’impresa folle e sui generis, che conferma l’ambiziosa idea di cinema, la voglia di rischiare di Matteo Rovere. Un autore-produttore di nuovo conio per il cinema italiano, che scommette su generi poco frequentati da queste parti, uscendo dal pensiero unico della commedia di piccolissimo respiro.

A 36 anni appena compiuti Rovere ha firmato 5 lungometraggi da regista, tra cui Veloce come il vento, atipico film sull’automobilismo con un atipico Stefano Accorsi. Ed è attivissimo come produttore tra rete, cinema e tv, con colpacci come la webserie dei Pills e Smetto quando voglio, trilogia cinematografica che ha rinnovato logiche narrative e industriali (secondo e terzo episodio girati insieme).

Il primo re, diretto e coprodotto da Rovere con la sua Groenlandia insieme a Rai Cinema e investitori belgi ha un budget di circa 8 milioni, un film fatto anche per dimostrare, come ha dichiarato Matteo, “che esiste un’industria italiana in grado di realizzare opere all’altezza degli standard internazionali”. Quindi è un kolossal di sapore mitologizzante, che ripercorre le origini leggendarie della romanità, guardando non ai vecchi peplum ma all’epica e alla retorica guerriera di Apocalypto di Mel Gibson, o all’estremismo fisico di Revenant di Iñárritu.

E come Apocalypto era in lingua maya con sottotitoli, così per Il primo re Rovere e gli sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri, con la consulenza d’un gruppo di semiologi delle facoltà di Roma, s’inventano un verosimile protolatino, usato non solo per senso del realismo ma per restituire la natura arcana, tellurica di un tempo abitato da altri uomini e altre parole.

Il cuore della vicenda è l’amore tra fratelli assoluto e viscerale di Remo e Romolo interpretati, rispettivamente, da Alessandro Borghi e Alessio Lapice, convincenti. Di Borghi, in particolare, corpo divistico del film, non si può che continuare a dire bene, anche per l’intelligenza con cui si muove tra mainstream, cinema d’autore e tv, con prove d’immedesimazione “all’americana”, come il suo doloroso Stefano Cucchi, o di fatica fisica ed emotiva, come questo Remo che si dibatte per tutto il film tra boschi, fango e paludi d’uno scenario estremo, fotografato con virtuosistica luce naturale da Daniele Ciprì.

La storia è in sé elementare: Remo e Romolo sono catturati dai guerrieri di Alba Longa, si liberano e si mettono a capo di un gruppo di reietti, portando con sé anche la vestale (Tania Garribba), protettrice del fuoco magico. Nei diversi scontri e incontri durante l’attraversamento del bosco emerge il conflitto “ideologico” tra i due, nonostante l’affetto che li lega. Remo incarna un’idea di potere autocratico, senza giustizia e senza Dio (“Io sono il solo Dio che riconosco”, dice). Romolo rispetta la divinità (e la profezia della vestale) e comprende che è giunto il tempo di passare dal tempo dei guerrieri a quello degli uomini e a una comunità allargata.

Il primo re è in parte anche vittima delle sue ambizioni, e si potrebbe manifestare qualche perplessità sulla tenuta d’una vicenda che, protratta per oltre due ore, ogni tanto s’avvita su sé stessa e si ripete. Ed è un peccato che un film che, proprio perché brutale, sa essere epico senza quasi magniloquenza, si chiuda su una battuta smaccatamente retorica. Ma ogni limite viene facilmente perdonato, per la vastità e complessità del progetto; e perché nella muscolarità della messinscena la regia di Rovere è capace anche di intuizioni metaforiche – Remo è il signore della notte, e dell’oscurità della ragione, mentre la figura di Romolo emerge con l’arrivo del giorno e della luce.

E c’è un’altra, definitiva ragione per cui non si può che plaudire all’uscita de Il primo re. Basta guardarsi intorno: in questo momento nei cinema ci sono I compromessi sposi, una commedia su un matrimonio che non s’ha da fare, stereotipi antidiluviani su nord e sud, Abatantuono, Salemme e le fashion blogger; Non ci resta che il crimine, a spasso nel tempo tra anni Ottanta, romanzi criminali, battute vintage e donne oggetto. Poi stanno per arrivare 10 giorni senza mamma, col mammo Fabio De Luigi ovviamente disastroso alle prese coi figli, perché si sa come sono i padri italiani e la mamma è sempre la mamma; e Modalità aereo, l’ennesima commedia che, dopo il successo di Perfetti sconosciuti, punta tutto sui qui pro quo legati all’uso del cellulare.

Il cinema italiano, insomma, ha bisogno come il pane di persone come Matteo Rovere e di film come Il primo re. Auguriamoci che trovi un suo pubblico.