Il Rock, cura eterna contro i mali musicali di oggi: IN ROCK WE TRUST … ancora.

Il Rock'n'Roll esisterà sempre, almeno finché ci sarà una sacca di resistenza fatta di uomini che ascoltano vinili, che imbracciano chitarre, che si fanno crescere ciuffi e basette, pronti a occupare abusivamente la cantina con qualche amico e dar vita a una band!


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È solo rock’n’roll, ma mi piace.

Uno slogan che ha avuto, in passato, un certo successo.

Una frase semplice, che in effetti racchiudeva un comune sentire, una modalità piuttosto diffusa.

Il rock è qualcosa di basico, di elementare, sicuramente per sua natura non troppo complesso. Certo, se uno pensa a Frank Zappa o a Mike Patton è anche qualcosa di complesso, ma non stiamo troppo a sottilizzare. Il rock è selvaggio, elementare, tribale. E ci piace.

O almeno ci piaceva.

Perché oggi, diamo un mesto sguardo alle classifiche, sembra che il rock non ci piaccia più. Anzi, sembra proprio che ci faccia cagare. Per vari motivi, ovvio. Da una parte perché la musica la ascoltiamo con degli apparecchi che col rock hanno scarsa empatia, gli smartphone. Più semplice ascoltare roba tipo il rap o la trap, con quelli. La compressione delle frequenze, nel caso, è meno dannosa per il risultato finale, anche perché quei generi, oggi, si muovono proprio pensando agli smartphone, mica alle grandi platee negli stadi. Si fa tutto in casa, senza strumenti, senza sale prove, senza cantine. Poche centinaia di euro e si lavora sui brani, li si porta in giro leggeri, la rete li fa arrivare a tutti. Le chitarre diventano obsolete. Figuriamoci le batterie o i bassi (provateci voi a sentire i bassi con gli smartphone, o anche gli acuti di un assolo di chitarra, distorce tutto).

Il rock, che più volte è stato dato per spacciato è lì lì per morire davvero.

Del resto, questo un ragionamento che non avrei mai dovuto fare, sembra che lo streaming, quello streaming che non sta portando utili nelle tasche degli artisti, e che fin qui l’ha portato alle discografiche per una questione di cessione in massa dei repertori, come dire “svuoto casa e faccio cassa, cazzo me ne frega di cosa si troveranno quelli che arriveranno dopo”, sembra che lo streaming qualche effetto clamoroso lo stia sortendo. Questo. Artisti come i trapper o gli indie, generi che hanno di colpo riportato i giovani e i giovanissimi sul mercato, parlo di utenti, e che hanno in comune anche una certa autonomia produttiva, pochi costi e massima resa, stanno riempiendo palasport e locali. Davvero. O quasi sempre davvero. Per dire, a guardare quel che succede e succederà a nei prossimi mesi al Forum di Assago viene da farsi delle domande.Ci passano tutti. Da Calcutta a Gazzelle, da Salmo ai Thegiornalisti, passando per gli immancabili Ghali o Sfera Ebbasta. Gente che, se uno pensa al vecchio mercato discografico, quello in cui le classifiche erano fatte da dischi venduti nei negozi, con persone che dovevano uscire di casa per comprarseli, probabilmente non sarebbe mai esistite. Ma che oggi stanno quasi sempre in vetta alle classifiche di streaming, e di conseguenza a quelle di vendita. Il dato clamoroso, quindi, è che questi artisti che non fanno un vero e proprio mercato hanno però un mercato live florido, fatto di palasport e spesso di palasport riempiti.

E il rock, si chiederà qualcuno, il rock che c’entra?

C’entra, il rock. Perché a cinquant’anni da Woodstock, primo raduno globalizzato e massificato, e a quarant’anni dalla morte di colui che ha incarnato l’assassinio del rock, Sid Vicious, il rock è ancora lì, apparentemente morto, ma solo apparentemente.

Mi spiego. L’altra sera sono andato al Sound Club di Milano, un locale piuttosto figo, dalle parti degli studi Rai di Mecenate. Ci sono andato perché c’era un evento che, chi come me col rock è nato e cresciuto, non si sarebbe perso per nulla al mondo. Nel mio caso specifico, evento ancora più evento per i motivi che ora vi vado a spiegare. Al Sound Club di Milano, infatti, è andato di scena il concerto della Slim Jim Phantom, ovvero la band del leggendario batterista degli Stray Cats, vere e proprie divinità del rockabilly, con Jennie Vee degli Eagles of Death Metal al basso e Brando alla chitarra. Ecco, la presenza su quel palco di Brando, amico fraterno di nuovo su un palco a fare del rock’n’roll dopo un sacco di anni, per me, è stato un incentivo mica da ridere, perché ho sempre seguito Brando, sin dai tempi dei Boppin’ Kids e poi come cantautore, ma ho avuto la fortuna di conoscerlo solo negli anni in cui era diventato produttore, senza poterlo mai vedere su un palco in qualità di rockettaro. E devo dire, qui sta il cuore di questo pezzo strampalato, che a vedere questi tre loschi figuri sul palco del Sound Club di Milano, mi sono sentito come si dovevano sentire i cristiani nelle catacombe: spaventato per quel che sta succedendo là fuori, ma certo che una salvezza in fondo è possibile. Perché se due uomini di mezza età a e una ragazza con occhiali da sole e cappello sono riusciti a scatenare l’inferno come gli Slim Jim Panthom hanno fatto a beneficio dei presenti, certo in buona parte molto ben disposti a farsi ardere vivi dal sacro fuoco del rock, basette a punta e giubbotti di pelle stavano lì a conferma di questa teoria, beh, significa che il rock è destinato a sopravvivere a tutto, anche alla musica demmerda che gira in questi tempi infausti. Perché si tratti di Great balls of fire di Jerry Lee Lewis o Blue Suede Shoes di Elvis poco cambia, una chitarra elettrica, un basso e una batteria suonata categoricamente da in piedi, nel classico stile di Slim Jim, fanno sempre la differenza. Si chiama potenza del repertorio, credo, quella cosetta che le canzoni di oggi non potranno decisamente vantare a distanza di cinquanta e passa anni. Si tratta di essere capaci di superare non solo l’usura del tempo, ma di riuscire a instaurare un dialogo con chi, io sono nato nel 1969, ai tempi in cui queste canzoni sono state scritte neanche era nato. Si tratta di incarnare, e non è semplice oggi come non lo era allora, lo spirito di nazioni che tra loro nulla avrebbero a che spartire, in partenza, ma che anche grazie al rock’n’roll hanno costruito un ponte, troppo presto diventato un ponte levatoio.

Vedere Brando, Jennie Vee e Slim Jim, va sottolineato, è uno spettacolo imperdibile, e l’auspicio è che presto possano vederli un po’ in tutta Europa. Io c’ero, e per parte mia tanto mi basta.

In rock we trust, recitava un altro slogan, non ricordo più di chi.

Io nel rock ci credo ancora oggi. E credo che farebbero bene a crederci anche i discografici, i pochi sopravvissuti. Perché finché esisterà questa sacca di resistenza fatta di uomini che ascoltano vinili, che imbracciano chitarre, che si fanno crescere ciuffi e basette, ci sarà sempre qualche figlio o figlia, nipote o nipote pronto a occupare abusivamente la cantina con qualche amico e dar vita a una band. Un giro di Do, del resto, lo si impara in fretta e il testo di Be Bop A Lula è facile da inventare.

La prossima volta che sentite una canzone trap, quindi, o qualcuno prova a convincervi che il suono dell’oggi è quello di una qualche canzone itpop, guardatelo con quel sorrisetto benevolo con cui si guarda chi vi supera in pieno centro perché non sa che a pochi passi c’è un autovelox.

È solo rock’n’roll, e lo resterà ancora a lungo.