Benvenuti a Marwen, il mondo delle bambole di Zemeckis assomiglia a un incubo (recensione)

Il film s’ispira alla storia vera dell’uomo che, per riprendersi da un trauma, s’inventò un mondo in miniatura di pupazzi. Una vicenda controversa che non si presta a un film a lieto fine. Bravo Steve Carell alle prese con un personaggio difficile.

Benvenuti a Marwen

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La storia vera alla base di Benvenuti a Marwen non poteva non affascinare Robert Zemeckis, regista che ama ideare universi narrativi in cui i livelli di realtà si sovrappongono, dove uomini in carne e ossa interagiscono coi cartoon (Chi ha incastrato Roger Rabbit) o in cui i personaggi in motion capture creano un mondo più vero del vero (Polar Express).

Il mix di Benvenuti a Marwen di realtà e animazione digitale s’ispira alla vicenda di Mark Hogancamp (nel film Steve Carell), precedentemente raccontata nel documentario Marwencol di Jeff Malmberg. Mark era un illustratore dilettante che una sera venne picchiato quasi a morte da un gruppo di neonazisti, che lo scambiarono per omosessuale.

Uscito dal coma, Mark non era più in grado di camminare, disegnare, aveva perduto la memoria, costretto a ripartire da zero. Per elaborare il trauma s’inventò un mondo in miniatura di pupazzi, il fantomatico paesino belga della Seconda guerra mondiale Marwen, con al centro le storie dell’eroico capitano Hogie. Accanto a lui un quintetto di bellissime donne soldato – proiezioni di figure reali, la fisioterapista che rimette Mark in piedi, un’infermiera russa che si prende cura della sua salute –, unici personaggi positivi in un mondo popolato di nazisti.

L’universo in scala è la modalità in cui prendono forma le paure ricorrenti di Mark, e insieme la sua strategia di sopravvivenza e una forma d’espressione artistica. Mark scatta delle fotografie alle sue minuziose scenografie. Ed è così che la vicenda diventa di dominio pubblico, grazie a un gallerista che, scoperte le immagini, propone all’autore di esporle, regalandogli un’inattesa notorietà.

Il vero Mark Hogancamp col pupazzo del capitano Hogie

Come altri personaggi del cinema di Zemeckis, Mark non riesce a gestire la propria vita e ha bisogno di espedienti per venire a patti col mondo. Nel suo caso è la cittadella delle bambole, che in Benvenuti a Marwen prende vita ogni volta che Mark si sente a disagio, saltando dal mondo vero all’universo immaginario del bellimbusto Hogie.

Nella realtà ricreata, però, non tutto fila esattamente liscio. Quando vengono uccisi, i nazisti risorgono come in un horror. E la crudeltà impiegata nelle esecuzioni dei cattivi – impalati alle inferriate, crivellati di colpi – è disturbante, spia dell’intensità dei traumi cui questo universo alternativo offre risposte non tranquillizzanti.

Mark oltretutto possiede tratti singolari. Ha una passione per i tacchi a spillo, centinaia di scarpe che lui colleziona e calza – “Indosso scarpe femminili perché mi fanno sentire connesso all’essenza delle donne”.  E adora le sue donne-bambola, sensualissime, che lui chiama “pupe” e tratta come oggetti – rischiando di fare lo stesso, nella sovrapposizione tra realtà e finzione, con le donne vere che incontra.

Le donne soldato del film di Zemeckis

Benvenuti a Marwen è un film irrisolto e angosciante. Zemeckis può anche ironizzare con gusto camp sulle propensioni feticiste del protagonista, ma al fondo la storia resta perturbante. Il film vorrebbe raccontare una rinascita, come dimostra l’aggiunta della vicenda sentimentale con Nicol (Leslie Mann), che Mark vive più sul piano traslato che reale. E c’è poi l’idea ottimistica dell’espressione artistica come espediente per ritrovare il gusto della vita.

Stavolta però Zemeckis ha scelto la storia sbagliata. La vicenda di partenza è troppo straniante per adattarla a un racconto a lieto fine. Benvenuti a Marwen è insoddisfacente come lettura d’una psicologia contorta – troppo meccanico il passaggio dalla realtà al mondo inventato ogni volta che Mark è in difficolta. E la vicenda mantiene il retrogusto problematico delle ossessioni e paure del protagonista, difficili da incanalare in un’esperienza corroborante per lo spettatore. Il mondo di Marwen non è una deliziosa casa di bambole: è un incubo e un’allucinazione.