Roma di Alfonso Cuarón è veramente il film dell’anno? (recensione)

Distribuito da Netflix, "Roma" è stato adorato dai critici. Partendo dalle sue memorie, Alfonso Cuarón firma un’opera intimista e grandiosa. Sembra un documentario: bianco e nero, storie di vita quotidiana. Ma lo stile è raffinatissimo. Siamo certi sia un capolavoro?

Roma di Alfonso Cuarón

INTERAZIONI: 243

Netflix ha messo a segno un colpaccio, scegliendo di distribuire Roma di Alfonso Cuarón. Il regista messicano ha firmato il film dell’anno, adorato dai critici e cercato dal pubblico. L’onda lunga è partita dal Leone d’Oro alla Mostra di Venezia, con inevitabili polemiche circa l’opportunità di premiare un’opera non destinata alle sale.

Roma alla fine è arrivato anche lì, distribuito in 600 cinema nel mondo, prima di approdare sulla piattaforma il 14 dicembre. Adesso giungono i primi riconoscimenti: film dell’anno per New York Film Critics e Los Angeles Film Critics, 3 nomination pesanti ai Golden Globe, in attesa di un probabile trionfo agli Oscar.

Non è questa la sede per affrontare la spinosa questione Netflix, che abbiamo analizzato in altra sede. Diremo solo che Roma di Alfonso Cuarón è un film potentemente cinematografico, menomato dalla visione su piccolo schermo: girato in 65 millimetri, movimenti di macchina sontuosi, uso sapiente della profondità di campo, il suono trattato come un personaggio in più.

Roma di Alfonso Cuarón è un’opera insieme intimista e grandiosa. Partendo dalle sue memorie d’infanzia, il regista racconta la storia di Cleo (Yalitza Aparicio), tata della famiglia del dottor Antonio nel quartiere Colonia Roma a Città del Messico nel 1970-71. L’ambientazione è dimessa, lo stile invece smagliante. Basta la prima sequenza a dettare il tono: una banale pozzanghera ripresa con insistita lentezza in un bianco e nero pastoso – fotografia dello stesso Cuarón – in cui si riflette con precisione millimetrica un aeroplano che sorvola l’edificio.

L’armamentario espressivo è ricchissimo, all’altezza della fantasmagoria visiva di Gravity e de I figli degli uomini. I laboriosi piani sequenza, le panoramiche a indagare gli interni familiari, le svelte carrellate in esterni sono applicati a una vicenda dagli accenti quotidiani. E l’assunto minimalista, la vita ordinaria di un’umile domestica, finisce per trasformarsi in un’indagine delle relazioni di classe tra popolo e borghesia e in un confronto tra microstoria individuale e grande Storia – il massacro del Corpus Christi del 1971.

Nel generale plauso critico, qualche voce dissenziente ha cominciato a sollevarsi. Richard Brody sul New Yorker ha rilevato che Roma di Alfonso Cuarón «trasforma il personaggio di Cleo nello stereotipo fin troppo comune ai film di registi intellettuali e medio-alto borghesi quando rappresentano le classi più povere: un tipo forte, silenzioso, instancabile, che sopporta ogni cosa, deprivata della parola, un angelo silenzioso la cui incapacità o riluttanza a dare voce a sé stessa è ritenuta un segno della sua stoica virtù».

A noi rende perplessi l’ingombrante architettura simbolica, che rende manifesta, al di sotto della quasi documentaristica radiografia della realtà, l’ambizione da grande apologo, da affresco proverbiale. Con sconfinato talento per i dettagli, Cuarón riprende le certosine manovre che fa il dottor Antonio per entrare con la sua automobile nello strettissimo cortile di casa; invece la moglie, una volta che i due si separano, s’infila bruscamente con la macchina nello stesso spazio, rovinandone le fiancate – la notazione è tutta in chiave psicologica. Quello stesso cortiletto è afflitto dagli escrementi dei cani, in una continua lotta tra la tata che li ripulisce e una realtà riottosa all’ordine che le si vorrebbe imporre. È dai tempi di Tarkovskij che non si vedeva un’opera in cui l’elemento dell’acqua intorbidita fosse così rilevante.

Metafore affiorano da ogni dove: la gravidanza non desiderata di Cleo; un istruttore di arti marziali un po’ sciamano che invita gli allievi a un esercizio di equilibrio – Cleo è l’unica che riesce a eseguirlo; un ingorgo che pare citare l’ felliniano; la realtà esterna che grava sulle persone, dai rumori artificiali d’una metropoli inospitale alla natura minacciosa – terremoti, un incendio a Capodanno.

Ogni elemento funziona come segno premonitore e significato di secondo grado, con un effetto talvolta ripetitivo. Non aiutano gli incastri da melodramma, che stendono sul racconto una patina d’inverosimiglianza – l’incontro durante la strage tra Cleo e il fedifrago che l’ha messa incinta o, quando deve partorire, con il dottor Antonio scappato di casa.

Sono i limiti di un’opera che s’assume comunque il rischio di cercare una voce autonoma, costruendo un racconto al femminile – gli uomini, come in un film di Almodóvar, fanno una pessima figura – che sfocia in un peana al matriarcato, evidente nel sottofinale sulla spiaggia.

Roma di Alfonso Cuarón è più importante che bello, più costruito che emotivamente coinvolto e coinvolgente. Resta però singolare, anche per la capacità del regista di parlare d’un passato autobiografico senza indulgere nella nostalgia. Un film comunque grandioso, destinato a fare incetta di riconoscimenti.