Springsteen on Broadway è il disco dell’uomo prima dell’artista, la recensione del nuovo album del Boss

Da "Born to run" a "Dancing in the dark" il Boss ha scelto Broadway per raccontarsi e cantare i suoi brani in vesti più soft


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Ascoltare Springsteen on Broadway è un raccoglimento quasi ludico, simile a quella versione di The cat came back che Fred Penner incise insieme ai bambini nel 1992, e che divenne una chicca per chiunque non conoscesse ancora la filastrocca, tanto da diventare il tema di uno spot. The cat came back, però, era una canzone dell’800 e ancora non c’erano bicchieri di birra customizzati sul pavimento e chitarre acustiche poggiate di fianco al pianoforte per un’esibizione tête-à-tête col pubblico. Questo è quanto Bruce Springsteen, veterano rock, “The Boss”, voce dell’America degli anni ’80/’90 e pietra miliare della musica contemporanea.

«Ero nato per correre, non per stare fermo», precisa il Boss mentre intrattiene il pubblico e allude a Born to run. Intrattiene il pubblico, perché “Springsteen on Broadway” è la testimonianza della lunga esperienza che il cantautore statunitense ha registrato a Broadway, al Walter Kerr Theatre. 250 serate riservate, ad ogni tempo, a 1000 persone che ha guardato negli occhi come fa un amico, un docente o un esperto scomodatosi per tenere un seminario.

Un pianoforte, una chitarra acustica e un’armonica fanno parte dell’artiglieria scelta dal Boss per riposarsi dal chiasso di stadi, arene e chitarre elettriche. Solo lui, il suono soft di una chiacchierata e il pubblico. Chiacchierata, sì, perché Bruce Springsteen non è lì per suonare il suo repertorio e farsi applaudire: il Boss è lì per raccontarsi e parlare durante i brani. Il pubblico ride, applaude e si commuove, e sta in silenzio. Ogni canzone è introdotta e commentata, e le 35 tracce documentano quello che non è un concerto, ma una festa intima e calda.

L’arpeggio della chitarra acustica, originariamente eseguito al piano, di Growin’ up (1973, “Greeting from Asbury Park”) apre le danze. Springsteen ha un cantato che prima sospira, poi graffia e ironizza: «Non ho mai lavorato per 5 giorni a settimana come adesso, e non mi piace», e sono risate e applausi. L’intensità di Growin’ up, originariamente una ballata pop-rock molto tesa, diventa un unplugged che supera la precedente in atmosfera e introspezione.

Due tracce, due monologhi, anticipano My hometown (1984, “Born in the USA”), e l’avorio diventa protagonista. Il Boss siede al piano e per due tracce introduce il brano, fino alla traccia 5 quando inizia il suo canto. La sua è la voce dell’America che sogna e che contesta l’odio razziale – «There was a lot of fights between the black and white,
there was nothing you could do», C’erano tanti scontri tra i bianchi e i neri, niente che tu potessi risolvere – attraverso gli occhi di un bambino, di un adolescente e di un adulto. I racconti della parte più nera della storia dell’uomo scorrono attraverso le memorie del padre di quel bambino che si chiede il perché di tanto odio nel mondo, e Broadway on Springsteen raccoglie questa versione per piano che sottolinea un significante che nella versione originale era appena accennato. Silenzioso, perché sono le parole a fare rumore.

Gli interludi comici e i monologhi che fanno da filtro tra un brano e l’altro sono la ragione della scelta del teatro, ma anche un ammortizzatore per significati: in più occasioni il Boss si è messo a nudo e ha dedicato l’intera carriera a raccontarsi, ma anche a offrire la sua consapevolezza. My father’s house (1982, “Nebraska”) era stata scritta dopo un colloquio con uno psichiatra durante il quale Springsteen scoprì che era ora di vuotare il sacco e parlare del rapporto difficile col padre. Nella versione di “Springsteen on Broadway” è riproposta simile all’originale, una tenera ballad in 6/8 con il canto timido, quasi soffocato per non fare troppo rumore.

Si ritorna all’avorio per la versione di The wish (1998, “Tracks”), originariamente performata con la chitarra acustica. Un uomo che cresce ma non tralascia le sue origini, e lo fa con questo tributo a sua madre:

Well, tonight I’m taking requests here in the kitchen:
This one’s for you, ma, let me come right out and say it,
It’s overdue, but baby, if you’re looking for a sad song,
well I ain’t gonna play it.

Bene, stanotte sto accogliendo richieste qui in cucina:
Questa è per te, mamma, fammelo dire,
È in ritardo, ma baby, se cerchi una canzone triste
beh, non la suonerò.

Tutto scorre con malinconia e sorrisi traditi da lacrime, nel raccoglimento che “Springsteen on Broadway” mette sul piatto senza invadere troppo lo spazio che qui diventa condiviso e familiare, rassicurante.

Thunder Road (1975, “Born to run”) è uno di quei pezzi che accosta il Boss a Bob Dylan: l’armonica, la chitarra acustica che sostituisce il piano della versione originale fanno da sipario al cantautorato che Thunder road disegna nel repertorio di Bruce Springsteen. Diventa sorprendente il silenzio delle mille persone in platea, con le loro gambe accavallate e i loro smartphone a immortalare un artista che si fa cantastorie e poeta. Luci soffuse, nessun suono molesto. Tra un brano e l’altro sentiamo il Boss che mette via il plettro, che si alza dallo sgabello, che abbandona lo strumento per affidarsi alla parola e raccontarsi.

Un raccontarsi che è già tipico dei suoi brani. Bruce Springsteen è solito iniziare i periodi con «Well… », un’apertura che suggella un percorso che in quel momento viene rivissuto. «Bene, ho da dirvi ancora una cosa… », sembra dire, e il brano inizia come un tributo al suo vissuto. Un’autoanalisi che arriva con The promised land (1978, “Darkness on the edge of the town”), quando il Boss ricorda: «Non sono un ragazzino, sono un uomo e credo in una terra promessa» e si convince che oltre alla routine quotidiana e alla fatica delle avversità della vita esista una terra promessa, un mondo migliore fatto di istanti migliori, di respiro.

Arriva il momento, poi, di Born in the USA (1984, “Born in the USA”), oramai un vero e proprio manifesto della rockstar che in “Springsteen on Broadway” appende il gilet di jeans al chiodo e indossa una camicia comoda. Usa lo slider, imbraccia l’acustica e la fa ruggire, riuscendo a fare del rock anche senza premere il distorsore. È il brano più frainteso del Boss, interpretato dai più come una canzone patriottica, ma che in realtà racconta gli effetti della guerra del Vietnam sugli statunitensi. In “Springsteen on Broadway” diventa un brano tipicamente folk, con la metrica stravolta ma dai concetti inalterati.

Il Boss introduce Tenth Avenue Freeze-Out (1984, “Born in the USA”), pop e trascinante l’originale, essenziale nella versione di “Springsteen on Broadway”, nella quale viene ripreso il riff al pianoforte. La voce di Springsteen è carica, graffiante e vigorosa, e come al solito scherza col pubblico che dopo l’ennesimo scambio di battute si lascia andare in un applauso sincero a metà brano. A grande sorpresa, il Boss introduce Tougher than the rest (1988, “Tunnel of love”) con l’ingresso di Patti Scialfa, sua moglie. Patti interviene e dà forza al marito, che canta accompagnandosi col pianoforte e insieme intonano i versi che parlano di quel ragazzo che non è romantico come Romeo, non è di bell’aspetto. Parole espresse in una ballad che suona un po’ come Creep dei Radiohead per l’argomento.

Patti resta anche per Brilliant disguise (1988, “Tunnel of love”), il brano che porta al pubblico tutta l’insicurezza dell’uomo Springsteen, uno stato di cose che lo devasta ma che esorcizza scandendo le battute con pennate martellanti sulla chitarra acustica. Nessuna Telecaster a conferire potere e suono: “Springsteen on Broadway” chiama tutti in udienza perché il diario si scrive sul pentagramma, in questo disco. Un microfono che cattura anche l’ending entusiasta del Boss che saluta la moglie tra scroscianti applausi: «Lady Scialfa! She’s the best!».

Long time comin’ (2005, “Devils & dust”), tra le più recenti produzioni di Bruce Springsteen, colora Broadway con una sottile cadenza stoppata e appena accennata, differente dalla ballad pop originale ma qui riproposta con un taglio alle dinamiche più rock, smussate per lasciare spazio all’essenzialità che regala più vigore al testo. «Fra le braccia di Cassiopea, là dove stride la spada di Orione siamo io e te, Rosie, a crepitare come fili incrociati, e tu respiri nel sonno». Al metallo delle corde si unisce il suono country e folk dell’armonica, quella guarnizione perfetta per un incontro equo con l’artista. Springsteen canta ad occhi chiusi, e quando non è lui a serrare le palpebre lo fa il pubblico.

The ghost of Tom Joad (1995, “The ghost of Tom Joad”) è accolto con entusiasmo, ed è sufficiente che il Boss schianti una prima pennata alla chitarra per ripristinare il silenzio in sala. The ghost of Tom Joad è intensa e non esiste alcuna differenza con la versione originale. L’immigrazione americana, l’alienazione e le differenze culturali sono qui disegnate con dolore, come quando si sfoglia un album di brutti ricordi. L’incantesimo è più che percettibile, tanto da impedire a Springsteen di infrangerlo: per questo non vi saranno interruzioni tra Tom JoadThe rising (2002, “The rising”). The rising, dall’album omonimo, parla della tragedia dell’11 settembre 2001 e nel testo viene raccontata attraverso gli occhi di un soccorritore che sale (rise) lungo le scale di una delle Torri Gemelle. Il brano, però, è anche una metafora della riconquista dopo l’orrore. In “Springsteen on Broadway” diventa il momento più intenso e partecipato. La voce del Boss diventa un megafono, un lamento rassegnato e stanco che invita tutti alla memoria e alla lotta, ma diventa anche un abbraccio alle vittime e a quanti vivono ancora la paura.

Seppur “Springsteen on Broadway” non sia un album elettrico, né un live sparato sul pubblico con riff, assoli di batteria e liriche urlate, non poteva mancare Dancing in the dark (1984, “Born in the USA”), riproposta come un canto celebrativo con una carezza di nostalgia di quegli anni ’80 che ancora volevano dire cambiamento, nuove correnti e scoperte. La voce graffiata del Boss ancora resiste e colpisce, mai stanca di emettere suoni. Canta e parla, il Boss, e sorride al pubblico che gli ha permesso di scegliere Broadway, di essere quel Bruce Springsteen mondiale che oggi riscopriamo in una nuova maturazione, una umiltà che lo rende romantico e divertente.

Land of hope and dreams (2012, “Wrecking Ball”) continua subito dopo Dancing in the dark, senza interruzioni e sempre accompagnata con la chitarra acustica. Un brano politicamente impegnato e ispirato dalle immigrazioni, tanto da essere suonato a più riprese come risposta alle scelte del presidente americano Donald Trump: «Ora sai dove stai andando, ma sai anche che non tornerai». Nella veste di “Springsteen on Broadway”, Land of hope and dreams richiama un’altra volta lo stile di Bob Dylan, quella denuncia sociale espressa senza fare male, ma tagliente per la realtà che sa raccontare.

“Springsteen on Broadway” si chiude con la gloria di Born to run (1975, “Born to run”). Manifesto del Boss e di un’intera generazione, che nonostante l’arrangiamento acustico non perde di spessore e potenza. Le luci illuminano la platea, e terminato il brano con un lunghissimo applauso dei presenti. Un inchino, un’ovazione che ancora echeggia quando gli ultimi suoni si esauriscono. Born to run è la tipica canzone alla Springsteen: in chiave maggiore, con riff di tastiere che non danno tregua e quel messaggio – siamo nati per correre – che diventa una spinta emozionale e adrenalinica.

Nessun intervento della E-strett Band, nessun fill in di batteria né il frastuono delle grandi casse da palco. “Springsteen on Broadway” è il soggiorno della casa del Boss, quello in cui ci si distende e si conversa senza troppo impegno, ma con grande spirito di osservazione. La Columbia lo ha lanciato come doppio album e si può dire che funziona solamente se gli si presta attenzione: lì dentro c’è l’uomo, prima dell’artista. Un uomo che in “Springsteen on Broadway” è presente più che mai, che prende la chitarra e si siede dietro al piano, ma soprattutto che si mette quasi sotto esame di fronte a un pubblico che già lo adora, che è venuto lì per amarlo e, per la prima volta, ascoltarlo meglio.

“Springsteen on Broadway”, è bene saperlo, è anche un film in uscita nella notte del 16 dicembre su Netflix e prodotto dal regista Thom Zimny.