Baby di Netflix non è una serie sulla prostituzione, il caso delle squillo ai Parioli resta sullo sfondo (recensione in anteprima)

Ecco cosa aspettarsi da Baby di Netflix, la serie liberamente ispirata al caso di prostituzione minorile ai Parioli del 2014


INTERAZIONI: 176

Si tratta di una delle serie-evento dell’anno, uno dei titoli più attesi sia per l’attenzione suscitata dal caso a cui si ispira sia per la distribuzione internazionale in mezzo mondo di un prodotto tutto italiano, ma Baby di Netflix potrebbe deludere le aspettative di chi pensa di ritrovarsi sullo schermo il resoconto, i dettagli e le morbosità di un caso giudiziario da prima pagina.

La serie con protagoniste le giovani Benedetta Porcaroli (Chiara) e Alice Pagani (Ludovica) parte quasi in sordina, introducendo i personaggi principali senza andare dritto al nocciolo della trama, o almeno quello che l’opinione pubblica – e certamente i giornalisti che vi hanno assistito in anteprima – si aspetta di vedere, ovvero la trasposizione del caso delle baby squillo dei Parioli sullo schermo. Ecco, tutto questo, sostanzialmente, non ci sarà almeno fino alla metà di questa prima stagione: la prostituzione minorile non è l’asse portante della trama di Baby né voleva esserlo nelle intenzioni di chi l’ha scritta e diretta.

Come spiegato dal regista Andrea De Sica e dalla caposceneggiatrice Isabella Aguilar in conferenza stampa dopo la proiezione dei primi due episodi, lo scopo di Baby non è cronachistico, la serie non vuole fare denuncia sociale né essere in alcun modo didascalica. Non vuole mitizzare la ribellione sessuale che avviene attraverso la messa in vendita del proprio corpo ma nemmeno giudicare la libera scelta di chi lo fa, anche se minorenne. Il format è stato (molto) liberamente ispirato a vicende reali, prendendo però le distanze da qualsiasi riferimento specifico a fatti e persone coinvolte e ampliando il racconto ad un microcosmo di personaggi, ognuno col suo lato oscuro da esplorare, che non si limita alle sole due protagoniste adolescenti ma vuole essere corale.

Peccato che il gran battage promozionale sia stato focalizzato soprattutto su quell’aspetto, forse per faciloneria dei media e perfino dei grandi giornali che hanno titolato sulla “serie sulle baby squillo dei Parioli” dando per scontato un collegamento diretto tra i fatti accertati in tribunale e la finzione pura messa in scena dalla serie.

Del caso di cronaca che ha scosso Roma nel 2014 e ha portato due anni dopo a pesanti condanne sia per i gestori del giro di prostituzione minorile sia dei loro clienti e in un caso anche di genitori delle ragazze coinvolte, resta in Baby di Netflix soltanto lo spunto intorno al quale si è voluto costruire un teen drama all’americana ambientato però nel cuore della Capitale, nei Parioli dell’alta borghesia, una storia tutta italiana ma destinata ad un pubblico internazionale di ben 190 paesi e per questo declinata coi classici registri delle serie a tema adolescenziale seppure con uno storytelling molto più contemporaneo che incrocia costumi, abitudini, mezzi di comunicazione e fenomeni tipici degli ultimi anni (dalle mode delle “macchinette” dei pariolini all’uso spasmodico dei social network come nuova forma di interazione sociale).

Figli adolescenti e genitori in crisi di mezza età, un classico della serialità giovanile dai tempi di Beverly Hills, innescano qui il vortice all’interno del quale si scontrano la ricerca di identità e ribellione dei ragazzi e la mancanza di autorevolezza ed empatia di padri e madri spesso disadattati e impreparati.

L’aspetto pruriginoso della vicenda non viene volgarmente esibito, anche se il primo episodio gioca molto sull’attesa dello spettatore: c’è un crescendo nello stile della regia e nei temi musicali (la colonna sonora originale è del compositore e musicista Yakamoto Kotzuga, aka Giacomo Mazzucato) che induce il pubblico in un’atmosfera di tensione a cui non fa seguito però alcun evento realmente impattante dal punto di vista della scoperta della sessualità da parte delle protagoniste. Le poche scene di sesso sono timide e quasi inverosimili per la loro delicatezza, ad eccezione dell’episodio di bullismo che vede una la problematica Ludovica vittima della trasmissione pubblica di un video privato di un incontro sessuale. Insomma, la prima impressione è che nel 2018 per un format del genere si sarebbe potuto e dovuto osare di più sulla rappresentazione della trasgressione.

Ideato dai GRAMS (un nuovo collettivo di scrittori composto da cinque giovani autori, Antonio Le Fosse, Re Salvador, Eleonora Trucchi, Marco Raspanti e Giacomo Mazzariol) come un romanzo di formazione in cui tutti i protagonisti, giovani e adulti, sono ritratti come identità sfocate e anime in costante travaglio alla ricerca di se stesse, Baby introdurrà il tema della prostituzione nel corso della serie, come uno degli espedienti dell’affermazione della propria libertà personale a cui le protagoniste arriveranno spinte dal nichilismo e dall’assenza di valori che le circonda. O almeno questa è la promessa di chi l’ha scritto ponendo nei primi episodi le basi perché si arrivi a quel risultato. Ragazze che non saranno descritte come vittime, non saranno giudicate né ritratte con morbosità, ma raccontate come persone in cerca della propria identità. E chissà che il tema così scabroso che ha attirato l’attenzione intorno a questa produzione non sia approfondito in una seconda stagione, già prevista.

Prodotta da Fabula Pictures, Baby debutterà su Netflix il prossimo 30 novembre.