La stanza d’albergo di Ciro in Gomorra 3 è boom di prenotazioni, l’effetto emulazione tra “stese” e turismo

Il fenomeno per cui la stanza d'albergo di Ciro in Gomorra 3 fa segnare un boom di prenotazioni riaccende il dibattito sul presunto effetto emulazione


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La stanza d’albergo di Ciro in Gomorra 3, presso l’hotel Mignon intorno a Piazza Garibaldi a Napoli, ha fatto registrare negli ultimi giorni un boom di prenotazioni: il curioso fenomeno per cui il due stelle napoletano si è ritrovato un gran numero di richieste in più rispetto alla media, come riporta l’edizione napoletana di Repubblica, è certamente diretta conseguenza delle riprese della serie tv realizzate nella struttura.

Quello che prima era uno dei tanti residence non proprio rinomati del centro di Napoli oggi è l’albergo in cui ha alloggiato l’Immortale di Gomorra, dunque val bene un prezzo maggiore per dormire nel letto di Ciro Di Marzio, interpretato da Marco D’Amore.

L’aumento delle richieste di prenotazione per la stanza d’albergo di Ciro in Gomorra 3 ha riacceso i riflettori sul tema dell’effetto emulazione, che ha accompagnato tutte le stagioni di Gomorra ma soprattutto il finale della terza, appena conclusa venerdì 22 dicembre su Sky Atlantic.

Se l’esistenza di una relazione causale tra la programmazione di Gomorra in tv e l’aumento delle “stese” (le raffiche di colpi d’arma da fuoco sparati in rapida successione) a Napoli è oggetto di dibattito dopo l’aumento dei fenomeni nell’ultimo mese, in concomitanza con la messa in onda della terza stagione, ma difficilmente risulta verificabile empiricamente, sul fatto che l’effetto emulativo sia scattato nei tanti cittadini e turisti che vogliono alloggiare nella stanza utilizzata per le riprese delle scene del protagonista di Gomorra non c’è dubbio alcuno.

Beninteso, i due fenomeni sono di natura talmente diversa da non poter essere paragonati: la curiosità, forse eccessiva e morbosa, di trascorrere del tempo in un luogo visto in tv e usato come alloggio da un criminale non può essere certamente considerato un effetto collaterale pericoloso al pari dell’aumento delle sparatorie notturne nei quartieri più a rischio, ma avalla la tesi nient’affatto infondata che la serie non resti uno spettacolo confinato allo schermo della tv, ma che abbia delle ripercussioni sulla vita reale delle persone, sui loro gusti, sui loro interessi, sulla loro percezione del cancro della camorra.

Gli sceneggiatori di Gomorra fanno un merito del fatto di aver mostrato come si crea una piazza di spaccio, come si reclutano affiliati, come si ripuliscono i soldi dei clan, come si gestisce il traffico di droga internazionale ed altri espedienti utilizzati dai clan per inquinare il tessuto sociale, ma soprattutto del destino di morte certa che attende ogni membro della camorra che non finisca in manette. Quel che non ammettono sono i potenziali effetti deleteri su spettatori vulnerabili, immaturi dal punto di vista dell’interpretazione dei fatti, non in possesso di quelle categorie concettuali che permettano di discernere finzione e realtà e cresciuti in contesti in cui la camorra è l’unica autorità riconosciuta sul territorio. Con la sua costruzione di personaggi volutamente carichi di fascino, comunque umani nella loro ferocia, capaci di stimolare i sensi dello spettatore, di innescare una perversa empatia da parte del pubblico che viene chiamato a parteggiare o meno per l’uno o l’altro, a fare il tifo come sugli spalti di una gara all’ultimo sangue, mentre lo Stato e le Istituzioni sono praticamente assenti se non relegate allo sfondo dell’epopea ricca di pathos dei protagonisti, Gomorra non può chiamarsi fuori dal discorso sui rischi di un’emulazione rischiosa di cui talvolta si avvertono le spie.

Roberto Saviano antepone a questo discorso il primato della narrazione, la necessità di raccontare, mentre gli attori stufi delle polemiche invitano a non guardare la serie se proprio la si ritiene pericolosa e fuorviante rispetto alla realtà. E obiettano che lo stesso discorso varrebbe per le varie serie tv sulla mafia, sul narcotraffico (anche Narcos ha subito lo stesso destino, accusata di apologia del crimine) ma l’elemento del legame con la realtà, della ricostruzione storica dei fatti, della rappresentazione del quadro istituzionale e di lotta alla criminalità in cui le storie vengono inserite può fare la differenza e restituire un affresco più veritiero in cui la contrapposizione dei valori fornisce elementi di cognizione in più allo spettatore che ne è sprovvisto. Ma in Gomorra lo Stato non esiste, le istituzioni non sono rappresentate, la polizia al di là di qualche arresto è quasi una presenza invisibile: Gomorra è la terra di nessuno, in cui il male prende forma in modi sordidi e affascinanti, in cui individui senza scrupoli spadroneggiano e fanno affari mostrando fieri il loro potere e la loro superiorità sul contesto che li circonda. Gomorra non vuole avere una funzione didattica e va bene così, l’arte non deve necessariamente averla. Ma se il presupposto è questo, accetti però che la scelta di rappresentare un universo di violenza fine a se stessa la ponga al centro del dibattito pubblico sui suoi effetti. Un dibattito che non è detto non serva a migliorare dal punto di vista dei contenuti un prodotto indubbiamente di grande qualità.