Nove lune e mezza, una commedia al femminile sull’utero in affitto

L’attrice Michela Andreozzi esordisce alla regia con un film sulla maternità surrogata, in cui la protagonista Claudia Gerini porta avanti la gravidanza per la propria sorella. Una movimentata commedia corale, un po’ esile ma apprezzabile nel suo sforzo di evitare il macchiettismo.

Nove luna e mezza, commedia al femminile sull'utero in affitto

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La storia di coppia al femminile è diventata un sottogenere del cinema italiano recente, esplorato nei toni del dramma impegnato (Buy-Golino in La vita possibile), (melo)drammatici (la coppia omosessuale Buy-Ferilli di Io e lei), commedia leggera (Gerini e ancora Buy in Nemiche per la pelle), commedia agrodolce (Bruni Tedeschi-Ramazzotti in La pazza gioia) e brillante (Cortellesi-Ramazzotti alle prese col toy-boy in Qualcosa di nuovo).

Adesso è la volta di Nove lune e mezza, commedia sull’utero in affitto in cui è femminile anche lo sguardo della regista, l’esordiente Michela Andreozzi, già autrice e attrice, che si ritaglia il ruolo della coprotagonista Tina, vigilessa quarantenne con laurea finita in soffitta che non può avere bambini. Giunge in soccorso la sorella, Livia (Claudia Gerini), che si offre di condurre la gravidanza del figlio concepito da Tina e dall’apatico compagno Gianni (Lillo). In Italia questa pratica è vietata, dunque Tina per non destare sospetti deve simulare la maternità, con tanto di classico cuscino sotto il maglione.

Pur nella confezione elementare, Nove lune e mezza non è stilisticamente al di sotto della media delle commedie italiane. La Andreozzi mette in scena un affollato racconto corale, al centro del quale ci sono due sorelle dai caratteri agli antipodi, la noiosetta vittimista Tina coi suoi sogni di maternità e matrimonio, e la disinibita Livia, violoncellista narcisista capace però d’un gesto di grande altruismo. Intorno a loro ruota una variopinta galleria di personaggi: i loro compagni (oltre a Gianni, l’osteopata salutista fissato Giorgio Pasotti), gli ingombranti genitori chissà perché napoletani (Nello Mascia e Nunzia Schiano), un fratello neocatecumenale (l’Alessandro Tiberi di Boris), il ginecologo gay Nicola (Stefano Fresi) con compagno e due figli (adottati in Canada).

È chiara la volontà di evitare il macchiettismo in Nove lune e mezza, e soprattutto nell’empatico ritratto del rapporto tra le sorelle Andreozzi e Gerini e in quello della coppia omosessuale emerge una certa misura descrittiva, anche perché l’intenzione dichiarata è quella di trattare, seppure nei toni d’una commedia leggera, un tema spinoso quale la maternità surrogata.

Il tono è inevitabilmente dolciastro – aggravato dalla colonna sonora didascalica e dall’ambientazione in una Roma trattata come un fondale troppo accogliente, quasi turistico – e la sceneggiatura avrebbe meritato maggiore asciuttezza (nelle commedie italiane è ormai inevitabile infilare internet e social network, anche quando non c’entrano nulla). Ma nella sua netta, non scontata propaganda progressista (chiara nel personaggio dell’ostetrica Paola Tiziana Cruciani) il film si muove sul filo d’un apprezzabile equilibrio.

Una sua verità Nove lune e mezza la vuole raccontare: che si tratti di nuclei familiari omo o etero, coppie conviventi o religiosissime, con figli “tradizionali” o meno, qui da noi si è sempre destinati a ritrovarsi tutti insieme la domenica in grandi tavolate col ragù, a vivere l’eterna messinscena della grande famiglia italiana, che grazie al collante dei sentimenti e del miracolo della maternità metabolizza qualunque mutamento. E resta sempre uguale a se stessa.