Venezia 2017, tra Gatta Cenerentola e Manetti Bros. un festival nel segno di Napoli

Negli ultimi due giorni due film hanno tenuto banco a Venezia 74: il sorprendente film d’animazione della Mad Entertainment e il crime musical “Ammore e malavita” dei Manetti. Due modi di guardare a Napoli molto personali, non assoggettati ai luoghi comuni e segnati da una grande felicità espressiva. E oggi in concorso c'è Abdellatif Kechiche.

Venezia 2017, tra Gatta Cenerentola e Manetti Bros

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Gli ultimi due giorni di Venezia 2017 sono stati nel segno di Napoli, che complessivamente quest’anno è presente al Lido in ben 7 film, a conferma di quanto sia potente la sirena partenopea nell’immaginario nazionale (tra questi Veleno di Diego Olivares e Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero). L’altro ieri è stata proiettata, in concorso nella sezione Orizzonti, la Gatta Cenerentola firmata dal quartetto Rak, Cappiello, Guarnieri, Sansone. Un film d’animazione, accolto persino con emozione dagli addetti ai lavori, che rilegge la città in una chiave cupa e dolorosa, però riscattata da una visionarietà straripante, una fantasia espressiva che indica una strada (forse utopica) di riscatto possibile, grazie a quell’energia creativa, quella resilienza che rappresentano le cifre costitutive di Napoli.

Ieri poi è stata la volta del più eterodosso film del concorso principale, Ammore e malavita dei romani Manetti Bros. – ormai, dopo Song’e Napule, grandi conoscitori della città -, i quali hanno raccontato la metropoli partenopea attraverso una coloratissima tavolozza che, con un senso dell’ironia solitamente irrintracciabile nelle seriose competizioni festivaliere, mette insieme i generi cinematografici da b movies, loro marchio di fabbrica, con i generi autoctoni napoletani, la sceneggiata su tutti. E il discorso sui generi, sul coraggio soprattutto di combinarli senza legarsi a una sola chiave espressiva, è uno dei temi che stanno più a cuore ai Manetti Bros., come ci raccontarono l’anno scorso, a lavorazione del film appena ultimata, quando li abbiamo incontrati al Giffoni film festival.

Ammore e malavita è la perfetta espressione della loro filosofia: un film che, pur partendo dall’inaggirabile questione criminale – che c’è anche in Gatta Cenerentolanon sottostà al partito preso ricattatorio del gomorrismo, ma invece lo sublima e parodizza filtrandolo attraverso le canzoni che costituiscono il basso continuo sentimentale del racconto – con un approccio che, come notava anche Emiliano Morreale su la Repubblica, ricorda a tratti il raffinato gioco di Roberta Torre di vent’anni fa, Tano da morire (anche lì un musical). Il risultato ha divertito tutti, pubblico e critica, grazie a un approccio molto libero che prende gli stereotipi e li dissolve in uno sbrigliato pastiche, tra crime, musical, action e appunto sceneggiata, che alla fine restituisce un’immagine di città inedita e decisamente affettuosa.

Tornando al concorso, oggi tocca all’atteso Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche e Angels Wear White (Gli angeli vestono di bianco) di Lilian Qu.

Mektoub, My Love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche

È uno dei più celebrati maestri del cinema internazionale il regista tunisino naturalizzato francese Abdellatif Kechiche, presenza fissa festivaliera, che proprio a Venezia conobbe la prima consacrazione, il premio Luigi De Laurentiis per l’opera prima Tutta colpa di Voltaire nel 2000, doppiato dal Leone d’argento per Cous Cous nel 2007, e infine incoronato a Cannes con la Palma d’oro nel 2013 per La vita di Adele, che lo ha definitivamente imposto all’attenzione del pubblico grazie anche al profumo di scandalo d’una storia di amore lesbico senza eufemismi, spudorata non solo nella messa in scena della sessualità ma anche delle emozioni, scoperte, lancinanti.

Oggi ritorna con Mektoub, My Love: Canto Uno, altra durata consistente – tre ore, Kechiche ha bisogno di un tempo lungo, per scoprire i nervi emotivi dei suoi attori, trascinati attraverso un lavoro d’interpretazione sfiancante che assicuri la verità del personaggio – per raccontare, partendo da un romanzo di Antoine Bégaudeau, la storia di Amin, aspirante sceneggiatore che vive a Parigi, il quale ritorna per l’estate nella sua città natale, una comunità di pescatori nel sud della Francia.

Amin bighellona tra famiglia e amici d’infanzia, bar del quartiere e la spiaggia frequentata dalle ragazze in vacanza. Scatta l’amore con Jasmine, e nel frattempo si fa avanti un produttore che gli propone di finanziare il suo primo lungometraggio. Ma la moglie di questi fa delle avances ad Amin, che deve decidersi tra l’amore e la carriera. Mektoub, My Love: Canto Uno è un racconto di formazione, ambientato nel 1994, nel quale il mektoub del titolo indica appunto il “destino” cui tutti sottostiamo e che decide delle nostre scelte e delle nostre passioni. Il film ha fatto parlare di sé anche per le sue traversie produttive: prima di tutto perché Kechiche, scatenando le ire dei produttori, ha deciso di realizzare un film in due parti (ecco spiegato il “Canto Uno” del titolo), e poi perché, rimasto senza fondi durante il montaggio, il regista ha deciso di vendere all’asta una serie di memorabilia della sua filmografia, persino, pare, la Palma d’oro de La vita di Adele, per racimolare la somma necessaria a finire il film.

Angels Wear White di Lilian Qu

Lilian Qu è una regista, produttrice (tra gli altri di Fuochi d’artificio in pieno giorno) e sceneggiatrice cinese al suo secondo lungometraggio dopo Shuiyin jie (Trap street, 2013), che era passato alla Settimana della critica. Angels Wear White è la storia di due giovanissime studentesse che, in una cittadina di mare, vengono assalite in un motel da un uomo di mezza età. C’è una sola testimone, un’adolescente che quella notte lavorava alla reception. Ma per paura di perdere l’impiego, non parla. Le due vittime si scoprono completamente isolate di fronte a una tragedia più grande di loro, per la quale dovranno trovare da sole una via d’uscita.

È un racconto duro e non conciliato della Cina contemporanea: la giovane età (le ragazze hanno solo dodici anni) l’essere donne, la precarietà professionale espongono i tre personaggi femminili all’insicurezza e al ricatto di una società che non fa nulla per difenderle. “Il film è una storia sulle donne – ha dichiarato la regista -, sulla società che plasma le nostre percezioni e i nostri valori. Sulle scelte che ci sono consentite e sul coraggio di farne di diverse. Sui ruoli interscambiabili della vittima e del testimone. Sulla verità e la giustizia. E, soprattutto, sull’amore”. Da sottolineare che Lilian Qu è l’unica regista donna in concorso quest’anno; certo ci sono tante presenze nelle rassegne collaterali, ma il dato non è confortante.