Un anno di cinema è passato. E, come di prammatica, va chiuso con il gioco della top ten di Alta Fedeltà dei migliori film del 2016. La scelta è stata fatta sui film che hanno avuto una distribuzione in sala nell’arco dell’anno: il che significa che sono presenti film stranieri del 2015 (in un caso anche 2014), giunti però nel 2016 in Italia; e che non sono stati presi in considerazione film passati ai festival ma non arrivati in sala (altrimenti, per fare un esempio, non mancherebbe lo straordinario Austerlitz di Sergei Loznitsa). In ogni caso, non si tratta di assegnare promozioni e bocciature, ma soltanto di cercare di riflettere retrospettivamente su una lunga stagione cinematografica, ritrovando quelle pellicole che si sono sedimentate nella memoria, lasciando impresse emozioni e ragioni. Chiaramente quella dei dieci film è una sintesi brutale, e tante opere, anche di valore, sono destinate a restare fuori (Il figlio di Saul, The Hateful Eight di Tarantino, tanto per fare un paio di nomi). Qualche assenza è invece voluta, come il troppo cerebrale Neruda di Pablo Larraín e il troppo compiaciuto, nel suo minimalismo, Paterson di Jim Jarmusch: film sicuramente validi ma poco adatti alle nostre corde.
Il cinema italiano meriterebbe un’analisi a parte: l’anno è cominciato col botto da 65 milioni di euro di Quo vado? di Checco Zalone ed è terminato con la débâcle di una stagione autunnale e invernale in cui le sale che hanno proiettato film italiani sono state letteralmente disertate – cinepanettoni compresi (tanti, troppi!) -, anche quando, penso a Indivisibili di Edoardo De Angelis, avrebbero meritato migliore destino. Botteghino a parte, qualcosa si è mosso, un’apertura professionalmente più matura nella direzione di generi da noi inediti o quasi (ovviamente il supereroistico Lo chiamavano Jeeg Robot, il film d’automobilismo Veloce come il vento), mentre si conferma la visibilità del documentario, quel cinema del reale che con Fuocoammare di Gianfranco Rosi, solo punta di un iceberg, ha ulteriormente conseguito una riconoscibilità internazionale. Ma forse il film italiano più importante dell’anno è passato in tv: ed è la serie The Young Pope di Paolo Sorrentino, che ha avuto la sua prima assoluta, non a caso, sul grande schermo cinematografico del festival di Venezia, a conferma di quanto si vada facendo sottile il confine tra cinema e tv (e schermi del computer, tablet, smartphone), in una mobilissima rivoluzione che non investe solo la fruizione delle immagini, ma l’immaginario tout court.
Fatte queste brevi premesse, ecco la lista dei migliori film del 2016, la top ten di Alta Fedeltà.
10. Sully, di Clint Eastwood
Sully non è uno dei capolavori di Clint Eastwood. Eppure non poteva mancare, nella top ten dei migliori film del 2016 di Alta Fedeltà, la storia vera del pilota d’aereo del miracolo dell’Hudson. La ragione è semplice: Sully è un film sul senso della professionalità, sull’etica del lavoro ben fatto. Ed è quindi, all’altezza del 2016, il film che più ci ricorda la filosofia di un maestro come Howard Hawks, il cui cinema era l’orgoglioso racconto di professionisti che eseguono, laconicamente e senza pose eroiche, il proprio compito, confidando sulle competenze e sulla forza del gruppo. Allora ci chiediamo per quanto ancora sarà possibile vedere sugli schermi un cinema di sapore così classico e così ostinatamente umanista, convinto che l’individuo continui a costituire il centro di tutte le cose. Teniamocelo stretto quindi Eastwood, ultimo custode di un modo di fare e pensare cinema ormai inattuale, e per questo ancora più prezioso. Nel suo celebre libro su Hitchcock, François Truffaut rifletteva sul fatto che, una volta terminata la carriera di artisti come Hitchcock, Ford e appunto Hawks, certi segreti dell’arte cinematografica sarebbero stati irrimediabilmente perduti. Un’affermazione che possiamo fare, oggi, anche per Clint Eastwood.
9. Tutti vogliono qualcosa, di Richard Linklater
Dopo Boyhood, film di finzione sulla vita di un ragazzo dai 6 ai 18 anni, realizzato riprendendo la crescita dei protagonisti su un set (reale) lungo dodici anni, Richard Linklater si è dedicato a un progetto apparentemente assai meno ambizioso, la semplice storia d’un weekend nell’esistenza d’una matricola dell’università del Texas nel 1980. Eppure attraverso questa vicenda, che riporta idealmente al suo primo film, La vita è un sogno, Linklater ritrova in una forma purissima, apparentemente svagata e invece perfettamente distillata, tutte le ossessioni proprie del suo cinema. Le quali riportano quasi sempre a due temi fondamentali: il tempo e la nostalgia. Tutti vogliono qualcosa racconta le schermaglie di un gruppo di giovinastri al college, i loro allenamenti, le feste, le sbruffonate, l’inesausto chiacchiericcio: e scavando dentro questi momenti restituisce con struggente malinconia la bellezza e la dolcezza del tempo perduto. Un lavorio complesso e frustrante, perché è praticamente impossibile riportare in vita il passato. Allora tutto quello che si può fare è continuare a raccontare storie, augurandosi che prima o poi qualche attimo esemplare s’impigli tra le maglie della narrazione, restituendoci la musica dell’esistenza. Una cosa che in Tutti vogliono qualcosa accade ben più di una volta.
8. La mia vita da zucchina, di Claude Barras
A chi ci si deve rivolgere per vedere una storia di orfani franca e senza eufemismi, sincera e non ricattatoria? Al cinema d’animazione ovviamente, al ritmo lento e implacabile, tenerissimo e diretto del passo uno dei pupazzi di La mia vita da zucchina, il film di Claude Barras di cui probabilmente sentiremo parlare anche ai prossimi premi Oscar. Grazie anche alla sceneggiatura di Céline Sciammà, regista di suo di alcuni dei più singolari ritratti d’adolescenti del cinema recente (Tomboy, Diamante nero), La mia vita da zucchina è un sorprendente ritratto di vite ai margini. Ragazzini figli di tossicodipendenti o immigrati clandestini espulsi, quando non addirittura essi stessi colpevoli della morte accidentale della propria madre. Il film srotola un campionario di casi umani che non si trasforma mai in enciclopedia del dolore, in sorprendente equilibrio tra realismo della rappresentazione e trasfigurazione fantastica, asciuttezza e giusta commozione. La mia vita da zucchina è un racconto crudele d’una giovinezza cui però non viene sottratta la speranza del cambiamento. Un racconto nel quale, oltre ai bambini, esistono ancora individui adulti, pochissimi, che non abdicano alla propria responsabilità, disposti a soddisfare la sete di futuro dei ragazzini con uno sforzo pedagogico costante, capace di insegnare rispetto, regole, felicità e doveri.
7. La pazza gioia, di Paolo Virzì
Il migliore film italiano della stagione lo firma a mio modesto avviso Paolo Virzì, regista a suo modo tradizionale che da sempre, dichiaratamente, filtra il meglio della nostra storia cinematografica, quel tratto agrodolce, cattivo ed empatico della sempiterna commedia all’italiana di cui è l’unico consapevole ed autonomo erede. Ne La pazza gioia c’è più Risi (e Pietrangeli) che Monicelli, con questa Versilia in cui due donne sfrecciano su un’auto decappottabile con Gino Paoli in sottofondo, una scena che sembra sbucata fuori da Il sorpasso. Ma c’è molto altro in questo film su una coppia al femminile (quanti film italiani quest’anno incentrati su storie di due donne), che parla delle tante strategie, sane, malsane, di metodica follia, che bisogna escogitare per assicurarsi la sopravvivenza. Le due protagoniste sono bravissime, soprattutto Valeria Bruni Tedeschi, in un film fatto in gran parte d’una accumulazione senza sosta di fatti, accadimenti, spostamenti, che dànno al film un ritmo di gioia disperata, fino al rallentamento del finale, che trova note di commozione mai facili, senza soluzioni tranquillizzanti. Ma non manca una nota di speranza: speranza almeno negli individui, nei singoli e nella loro umanità che resiste, nonostante tutto.
6. Quando hai 17 anni, di André Téchiné
C’è lo zampino di Céline Sciammà anche in Quando hai 17 anni, di cui ha scritto la sceneggiatura. Ma il film va ascritto soprattutto al suo regista, André Téchiné, che firma a 73 anni una delle sue opere migliori, un magnifico racconto dell’età dell’incertezza sulla scoperta dell’omosessualità da parte di due liceali. Che sono un cocco di mamma di buona famiglia e un magrebino adottato da contadini che vivono sui Pirenei. I due prima s’azzuffano, poi poco a poco scoprono l’attrazione reciproca. La bravura di Téchiné sta nel situare la dinamica emotiva dei due ragazzi all’interno di un racconto corale nel quale è importantissimo sia il ruolo di adulti perfettamente delineati sia il contesto sociale che definisce e motiva le scelte individuali. Il risultato è un film di spinte e controspinte, nel quale l’irruenza fisica dei protagonisti adolescenti – di cui si racconta l’emergere della passione senza eufemismi – convive con lo sguardo analitico del regista, che sa radiografare l’affiorare esaltante delle emozioni senza mai perdere di vista le ragioni, individuali e sociali, che le sottendono e orientano. Una pacata lezione di cinema su come vanno raccontati passione e sentimenti.
5. 1981: indagine a New York, di J.C. Chandor
A rigor di logica questo film non dovrebbe essere nella top ten dei migliori film di Alta Fedeltà del 2016, dato che è del 2014. Ma per insondabili ragioni di distribuzione è uscito sugli schermi italiani con due anni di ritardo, dandoci l’opportunità di segnalare uno dei più interessanti nuovi talenti del cinema americano, J.C. Chandor. 1981: indagine a New York, titolo piuttosto fuorviante del più secco A most violent year, è una riflessione severa sull’american dream, un film che per parlare dell’oggi e di cosa sono diventati gli Stati Uniti, racconta una vicenda collocata agli albori degli anni Ottanta, confermando quanto quella stagione costituisca uno snodo fondamentale per comprendere la contemporaneità. 1981: indagine a New York parla di un capitalismo ad altezza uomo, incarnato da un individuo comune che partendo dal nulla si è fatto una posizione, contando solo sulla sua onestà e inflessibile abnegazione. Quello che, appunto, promette il sogno americano. Che però oltre ad ambizioni di crescita e magnifiche sorti e progressive contiene molto altro: una ferocia darwinista della competizione che premia alcuni ma spazza via molti altri. Chandor sottopone il suo protagonista a una sorta di calvario che conduce sulla via della consapevolezza: alla fine della quale riuscirà a capire che non basta perseguire l’etica del lavoro per mettersi moralmente al sicuro, ma è necessario sempre considerare il contesto e le conseguenze anche non volute delle proprie azioni. Un film di severa e ambigua moralità: non una banale requisitoria contro il capitalismo ma una riflessione adulta e interrogativa sul suo lato oscuro.
4. Io, Daniel Blake, di Ken Loach
Secondo alcuni la Palma d’oro al festival di Cannes è stata immeritata, perché Io, Daniel Blake, dal punto di vista narrativo e soprattutto formale è un film di retroguardia. Nella sceneggiatura di Paul Laverty qualche semplificazione c’è; e sicuramente la regia di Ken Loach non si distingue per innovazione stilistica. Eppure nell’ultimo film dell’ottantenne regista britannico, che racconta la discesa agli inferi di un falegname sessantenne senza più lavoro, salute e denaro (ma con intatte dignità e umanità), si trova distillata una rabbia composta, organizzata in uno sguardo che ostinatamente, ma senza declamazioni da partito (preso) continua a raccontare storie di esseri umani (o quel che ne resta). La curiosità per le storie minute della gente comune è qualcosa da cui sempre più il cinema di finzione si tiene alla larga, demandando il residuale spazio del racconto della realtà al documentario. Invece quello di Ken Loach è ancora cinema cinema: disperato a tratti – è la ragione per cui Io, Daniel Blake parla di singoli individui e non d’una ormai sbriciolata classe operaia -, eppure ancora combattivo e reattivo. Vitale, come il suo protagonista, che Loach genialmente fa interpretare a Dave Johns, uno stand up comedian britannico. Un uomo che è abituato a far ridere: che quindi, in quanto esperto di emozioni, riesce a trasmetterci i momenti di più alta commozione di questa stagione cinematografica.
3. Al di là delle montagne, di Jia Zhang-ke
Jia Zhang-ke si era fatto conoscere dal pubblico occidentale con il Leone d’oro nel 2006 del bellissimo Still life, singolare impasto di realismo scabro con venature fantastiche. Al di là delle montagne amplia le sue ambizioni: un affresco in tre atti della Cina contemporanea – 1999, 2014, 2025 –, nel quale i tre protagonisti principali sono inseguiti nel passaggio da un’epoca all’altra. E sono tre date che corrispondono al passato, presente e futuro della Cina, andando dagli albori della incredibile trasformazione economica del paese sino a un possibile futuro prossimo. Così le vicende umane e sentimentali dei tre personaggi – due uomini e una donna incastrati in una struttura da melodramma – si connettono sempre alle trasformazioni sociali ed economiche del paese. Al di là delle montagne è reso ancora più complesso dal ricorso a tre formati diversi per ognuna delle epoche, il ristretto 1.33 per il 1999, formato panoramico 1.85 per il 2014 e sontuoso CinemaScope 2.35 per il 2025. Il che suggerisce una chiave di lettura metacinematografica del racconto, accompagnata da un incisivo effetto di ribaltamento ironico: perché il 1999 gravido di aspettative è inscatolato in un formato asfittico, mentre agli scenari ariosi del CinemaScope corrisponde un 2025 incupito e povero di aspettative umane.
2. Un padre, una figlia, di Cristian Mungiu
Un padre pianifica il futuro della propria figlia, per consentirle di andare a studiare all’estero una volta compiuti i diciott’anni. Ma nel momento decisivo, il conseguimento del diploma, il destino si mette di traverso e rischia di mandare all’aria tutti i piani così faticosamente costruiti. Il padre non ci sta: e allora viene a patti con la sua etica, per cercare una soluzione, costi quel che costi. Che cosa sei disposto a fare? si chiede Cristian Mungiu in Un padre, una figlia: un film sulla scelta e sul caso, nuovo capitolo di un percorso di inesausta interrogazione morale che ci ha regalato già gemme come 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni. Il nuovo film del regista rumeno è una meditazione su esseri umani posti di fronte ad avvenimenti che ne incrinano certezze e valori. Un racconto senza risposte preconfezionate e tranquillizzanti che è insieme una riflessione lucida e sconsolata che scava dentro condizioni individuali continuamente poste in relazione con il contesto sociale che le produce. Un film che conferma il talento del regista e la vitalità del cinema rumeno.
1. La grande scommessa, di Adam McKay
Incredibilmente il film dell’anno lo gira un regista versato in commedie anche piuttosto grossolane, l’Adam McKay di Anchorman. La grande scommessa è un’opera rutilante, che sommariamente si potrebbe incasellare nel genere drammatico. Ma il suo stile è inclassificabile, perché è inclassificabile la storia che racconta, la crisi economica esplosa per colpa dei mutui subprime. Un mercato dalle regole folli, volutamente incodificabili. E allora per raccontare una storia così, l’unica è metter su un film dalla forma inaudita, nella quale s’accatastano soluzioni narrative le più diverse: c’è un maestro di cerimonie, come in un film di Scorsese o Fellini, un narratore che guarda in faccia lo spettatore e invece di rassicurarlo lo introduce nel girone dantesco d’un mondo fatto di individui esaltati che si scommettono la vita (soprattutto quella altrui) per pura ambizione e sete di danaro; ci sono i folli siparietti didattici con testimonial famosi (come fossero degli spot) che spiegano all’uomo della strada cosa è davvero successo; c’è il documentario sarcastico, nei momenti in cui la voce off descrive gli avvenimenti con ironici fermi immagine a commento (ed è puro Michael Moore); ci sono le pagine d’un dramma dove si mescolano le intuizioni di chi ha scommesso sul fallimento, lo sgomento di gente per bene che realizza di essere stata stritolata suo malgrado dal sistema (uno strepitoso Steve Carell), i parvenu dell’alta finanza che quando giungono in cima agli uffici della Lehman Brothers, che per loro rappresenta il simbolo stesso dell’essere “arrivati”, li trovano angosciosamente vuoti. La grande scommessa è un film dallo stile sbilenco, traballante, sempre sul punto di franare. Esattamente come la storia che racconta. Un caso di corrispondenza mirabile tra forma e contenuto. Entrambi demenziali.