Neruda, la biografia inventata del poeta cileno è un film sul cinema

1948, il governo cileno ha emesso un mandato d’arresto contro il grande Pablo Neruda, inseguito da un meticoloso prefetto di polizia. Pablo Larraín costruisce un labirintico gioco di specchi. Che parla del fallimento della politica e anche del cinema. Dove l’unica cosa che resta da fare è mettersi in scena, sapendo che è tutta una recita. Un denso film teorico, pensato più per i critici che per il pubblico.

Neruda Pablo Larraín

INTERAZIONI: 42

Neruda di Pablo Larraín è un falso biopic del poeta e uomo politico cileno Pablo Neruda. O meglio un “anti-biopic”, come ha dichiarato lo stesso regista, che ha esplicitamente avvertito gli spettatori: “Non andate a vedere il film per sapere chi era Neruda”.

Eppure il punto di partenza è fedele alla storia: 1948, il presidente cileno Gabriel González Videla (Alfredo Castro), eletto coi voti di radicali, democratici e comunisti, opera un voltafaccia, reprime le proteste dei minatori e dichiara fuorilegge il partito comunista. Il senatore comunista Pablo Neruda (Luis Gnecco), che aveva addirittura gestito la campagna elettorale di Videla, insorge con un infuocato intervento al senato (“Io accuso”), in cui elenca i nomi dei minatori prigionieri. Di lì l’ordine di arresto emesso dal governo, col poeta costretto a darsi alla macchia per evitare la prigione.

Il film però più che sull’antefatto si concentra sulla fuga. Raccontata non da Neruda, ma dalla voce narrante di Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), prefetto della polizia incaricato della cattura. Tra i due s’instaura un singolare dialogo a distanza. Il poeta trasforma la sua latitanza in un gioco enigmistico e lascia a bella posta delle tracce lungo il suo cammino, indirizzando dediche su libri polizieschi a Peluchonneau (“Sorgi a rinascere con me, fratello”). Come a voler orgogliosamente, pur nello stato di emergenza in cui versa, rivendicare il ruolo di protagonista e autore della sua stessa vicenda, rifiutando di ridursi al semplice uomo braccato con l’acqua alla gola. Infatti Neruda resta un fuggiasco vitale, creativo e gaudente, cinico e gaglioffo, che continua a scrivere (il Canto General), a frequentar bordelli, a farsi beffe della sua presunta grandezza ma anche a celebrare tronfio la sua arte poetica.

Dall’altro lato Peluchonneau, con i suoi costanti commenti in voice over, ha l’ambizione evidente di divenire lui l’autore e il protagonista della vicenda. E cerca di togliere la penna dalle mani del poeta laureato, inanellando frasi che più che pezzi di vita vissuta hanno il sapore di battute uscite di peso da un cattivo romanzo (“L’affascinante commissario lavora a un piano meraviglioso”, dice durante un’azione di polizia).

Progressivamente, il confronto tra Neruda e Peluchonneau assume i tratti d’un gioco di specchi, nei quali i due personaggi si riflettono l’uno nell’altro. Il loro legame è evidente: entrambi sono di origini proletarie, entrambi hanno assunto un nome “falso”, Pablo Neruda è lo pseudonimo di Ricardo Reyes Basoalto, mentre Peluchonneau è il nome che un bastardo senza natali ha conquistato convincendo tutti d’essere il figlio naturale del vecchio capo della polizia. Ma in realtà è il figlio d’una prostituta: “Ognuna di queste donne è mia madre”, dice durante l’irruzione in un bordello nel quale, guarda caso, mascherato da donna, c’è il poeta cui sta dando la caccia.

Pablo Larraín sottolinea il senso di orfanità di Peluchonneau, personaggio in cerca d’un autore che magari è proprio Neruda (“Forse sono stato un Neruda, un figlio del popolo”, dice), al quale però, nel dargli la caccia, vuole sostituirsi, per divenire il burattinaio che tira le fila della vicenda. Cosa che sembra riuscirgli fino a quando Neruda, nell’ultima parte del film, non si riappropria del suo ruolo e riduce il poliziotto a malinconica marionetta, rimescolando il senso stesso della narrazione e costringendo lo spettatore a reinterpretare da un’altra prospettiva quanto ha visto sino a quel momento.

Neruda di Pablo Larraín è costruito come un labirinto, un film nel quale per la verità non c’è più spazio, scomparsa dietro una fitta coltre di finzioni e apparenze. Il discorso politico di partenza non viene ridotto a pretesto, ma bruciato e sublimato in una struttura metanarrativa che a ogni passo denuncia appunto il suo essere racconto di finzione e non referto attendibile d’una realtà. Da qui le immagini spesso filmate in controluce, con i riflessi che riverberano sulla lente della macchina da presa per indicarne la presenza. O la scomposizione dei dialoghi, che si sviluppano con continui stacchi di montaggio che dislocano i personaggi che stanno parlando in luoghi sempre diversi, il che dà alle conversazioni un senso di artificiosità, di palese messa in scena. Oppure l’uso dei vistosi trasparenti, come nel cinema d’una volta.

Infine Neruda, e non poteva essere altrimenti, è strutturato su di una commistione di generi, dal poliziesco al western, dei quali si usa più la forma che la sostanza, attraverso il ricorso a citazioni e dettagli riconoscibili, come i vezzosi baffetti e il cappello alla Dick Tracy esibiti da Bernal, o l’insegna al neon da noir anni Settanta.

Il punto di partenza di Neruda resta il fallimento storico della politica, che rende impossibile cambiare le cose (non a caso compare fuggevolmente il giovane Pinochet; ma anche i comunisti non ci fanno una bella figura, descritti, Neruda in testa, come fatui e non senza ipocrisie). Questa consapevolezza lascia all’artista – sia esso Neruda o Larraín (che, non dimentichiamolo, è figlio di due influenti politici conservatori; in questa storia c’è qualcosa di personale) – una sola via per continuare a esprimersi: redigere il resoconto di questo fallimento. Non è più tempo di letteratura e cinema impegnati, di quell’arte che infiammava i cuori e influiva sulla realtà. Restano solo le storie che descrivono il fallimento: o meglio, restano solo storie che raccontano l’impossibilità di costruire storie che incidano sulla realtà.

Neruda è in un certo senso un film borgesiano. Preso atto che ormai tutte le storie erano state raccontate, Borges intuì che l’unica soluzione stava nel costruire storie che fossero plagi consapevoli, nelle quali l’aspetto più interessante non riguardava le vicende narrate – null’altro che ripetizioni di qualcosa già esistente – ma la letteratura in sé, assurta a vera protagonista. Larraín fa un’operazione simile: non racconta la biografia di un uomo straordinario, ma mette in scena il cinema stesso – la sua forma, generi, tecniche, figure retoriche (il doppio, la maschera, il labirinto) –, espresso attraverso un simulacro di storia in cui Neruda è perfettamente consapevole di star recitando una parte, e il suo antagonista lo capisce tragicamente strada facendo.

Neruda è un film affascinante sotto il profilo teorico, di straordinario controllo formale, ricco di suggestioni e rimandi. Ma è anche un’opera cerebrale, che elabora un doppio lutto (la sconfitta della politica e quella dell’arte che credeva di poter cambiare il mondo) attraverso un esibito armamentario intellettualistico. Un film che comunica troppa infelicità per essere integralmente postmoderno, ma che comunque tiene a distanza la materia narrata e si compiace del fatto che niente sia davvero come sembra.

Con tutti i suoi paradossi e doppi fondi, Neruda si presta a dissezioni ermeneutiche senza fine, che potranno appagare i critici, molto meno gli spettatori comuni. I quali probabilmente non esprimeranno il loro disappunto, intimiditi dall’indiscutibile grande stile di un’opera d’arte alta e aristocratica. Ed è questo forse il limite maggiore di Neruda, che esibisce la sua complessità con un sussiego fin troppo scoperto.