“I figli degli uomini”, l’apocalisse raccontata con stile troppo elegante

Su Rete 4 alle 23.20 Alfonso Cuarón racconta un mondo distopico senza più speranze. Il film visivamente è straordinario, con sequenze che sono autentici pezzi di bravura. Ma lo stile è troppo bello per una storia così pessimista. E fa sorgere parecchi interrogativi.

I figli degli uomini

INTERAZIONI: 70

I figli degli uomini di Alfonso Cuarón è un film che pone in una posizione scomoda. Da un lato è impossibile non lodarne lo straordinario fascino visivo – la fotografia è dell’intoccabile Emmanuel Lubezki, vincitore degli ultimi tre oscar consecutivi della categoria – e le spericolate soluzioni tecniche – ci sono alcuni dei più complessi piani sequenza degli ultimi anni, compreso un’incredibile scena girata con camera car che è un virtuosismo nel virtuosismo. D’altro canto, però, sussistono molte perplessità relative alla storia narrata e allo stile scelto dal regista per raccontarla. Il che impone di riflettere più analiticamente su stile e racconto, andando al di là della superficie smagliante.

Partiamo dalla storia de I figli degli uomini, tratta con qualche libertà da un romanzo della scrittrice britannica P.D. James. Siamo nella Londra del 2027: l’ex attivista politico Theo (Clive Owen) è ormai un grigio, infelice burocrate. Ma grigio e infelice è il mondo intero, come dimostra una Londra semidistrutta, come fosse stata appena bombardata. Una città nella quale feroci forze dell’ordine combattono contro attivisti e terroristi e controllano fanaticamente i confini, per espellere i tanti immigrati clandestini o destinarli a campi profughi. Quale la ragione di tanto degrado? Il grande trauma è l’infertilità: per inspiegabili ragioni, infatti, da 18 lunghissimi anni non nascono più bambini.

Theo viene rapito dai Pesci, un gruppo terroristico che si batte per i diritti degli immigrati. La leader è Julian (Julianne Moore), sua ex moglie, che gli chiede, data la parentela con un ministro del governo britannico, di ottenere un lasciapassare per la giovane immigrata Kee. Il mai sopito amore di Theo per Julian e la frustrazione per una vita fallimentare senza più ideali lo spingono ad accettare la missione. Nella quale resta incastrato, non appena comprende che i rivoluzionari hanno mire spregevoli e che la ragazza reca con sé un segreto che potrebbe cambiare il corso della storia. A quel punto la difende in ogni modo e insieme attraversano un mondo al collasso di miserabili e assassini senza più Dio né speranza. Un viaggio alla fine del quale dovrebbe attenderli la nave Domani di una leggendaria organizzazione di illuminati, il Progetto umano, che condurrebbe Kee verso un futuro migliore.

I figli degli uomini abbacina con la sontuosa messinscena: inquadrature sature sino a scoppiare di edifici diroccati, mura screziate, attentati, esseri umani umiliati e offesi, una realtà sull’orlo del baratro ritratta in controllatissimi piani sequenza e scene di violenza concitate filmate con camera a mano. L’orrore permea ogni singolo fotogramma e scatena nello spettatore una tristezza e una malinconia incontenibili. Gli uomini sono ormai poco più che bestie: la crudeltà da arancia meccanica delle forze dell’ordine, la casta politica che appoggia e causa i disordini per sete di potere, i rivoluzionari persino più calcolatori dei politici. Soprattutto, non essendoci più bambini, non esiste più l’idea del futuro. Questa insomma, è l’ultima generazione di uomini. Forse la peggiore di sempre.

Impossibile immaginare una distopia più fosca de I figli degli uomini. Ed è proprio questo uno dei problemi principali del film, il tono sopra le righe d’una storia che punta costantemente all’enfasi ed esprime monotonamente su qualunque aspetto della realtà il punto di vista più sconsolato e pessimista possibile. L’effetto è deprimente: e posto sotto questo perenne shock emotivo, lo spettatore rischia di smarrire qualunque capacità analitica. Che potrebbe invece spingerlo a porsi qualche domanda sulle incongruenze di questa favola nerissima: che relazione c’è tra la pur drammatica assenza di nuovi nati e l’eclissi della civiltà occidentale? Perché la città sembra sotto l’effetto di una guerra perenne (certo, il terrorismo: ma basta, in assenza di un vero e proprio conflitto, per causare danni così estesi a una capitale mondiale?). E perché, non si approfondiscono le motivazioni dei vari attori in campo, forze dell’ordine, classe dirigente, gruppi rivoluzionari, dando per scontato che siano tutti spregevoli e disumani arrivisti?

I figli degli uomini è una parabola catastrofista che si tiene ben strette le proprie discutibili tesi pregiudiziali. Perché in fondo, si dirà, a pensare male difficilmente si sbaglia. Ma non sarà invece che, lungi dal costituire un più alto livello di consapevolezza, questo pessimismo in bianco e nero che denuncia la sgradevolezza di un cosmo giunto al capolinea sia al contrario un segno d’immaturità, dell’incapacità di cogliere le sfumature di grigio della realtà?

Davanti a I figli degli uomini, malinconico ritratto del mondo secondo Alfonso Cuarón, lo spettatore frastornato annuisce convinto, certo di star assistendo a una sconsolata ma necessaria lezione che insegna una qualche più profonda verità filosofica sull’essenza (malvagia) dell’uomo. Questo perché, grazie al profluvio paralizzante di emozioni negative riversate sul pubblico, il film possiede le presunte caratteristiche dell’autentica opera d’arte. Primo, è una storia tragica, la più tragica immaginabile. E si sa, è la tragedia la confezione che s’addice al vero film d’autore. Secondo, I figli degli uomini seduce con l’inequivocabile grande stile, dai piani sequenza vertiginosi alla fotografia giocata su una batteria di tonalità spente, dal grigio al verdognolo, che vestono benissimo questo sconvolgente tramonto dell’Occidente. In più, a enfatizzare la già sovraccarica parte visuale del film, s’aggiunge la colonna sonora: una funebre partitura originale di John Tavener e gli scontati, visto l’argomento, Canti dei bambini morti di Mahler e la Trenodia per le vittime di Hiroshima di Penderecki.

È questa la ragione per cui lo spettatore non fiuta la patacca e pensa di trovarsi davanti a un capolavoro. In più c’è un altro aspetto discutibile. I figli degli uomini inanella sequenze che sono tutte dei pezzi di bravura. Ma quando si ritrae l’orrore con stile superbo, si rischia di renderlo attraente. In questo film i momenti più strazianti sono raccontati sempre con una sospetta perfezione visiva – le sequenze di battaglia riprese con la camera a mano sempre fluide, con movimenti di macchina coreografati al millimetro; la scena nella scuola diroccata, in cui la bruttezza degli interni è scenografica, un degrado calcolato che sa di imbellettamento posticcio. Il linguaggio elegante con cui Cuaron e Lubezki raccontano l’apocalisse ottiene alla fine un preoccupante effetto di estetizzazione del dolore. Che non è solo inopportuno. È falsificante.