La bella e la bestia, in “Paradise Beach” Blake Lively lotta per la vita

Il film di Jaume Collet-Serra è un classico shark movie. A combattere per la sopravvivenza è una statuaria Blake Lively, in bikini dall'inizio alla fine. Infatti il film è pieno di ralenti: per enfatizzare la suspense, certo, ma anche per assecondare il voyerismo dello spettatore.

Paradise Beach

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Paradise Beach – Dentro l’incubo (in originale semplicemente The Shallows, “Acque basse”) è uno shark movie che ruota integralmente intorno alla lotta tra la bella e la bestia, una Blake Lively abbacinante, anche se ferita, senz’acqua e senza cibo. I produttori avranno pensato che non poteva esserci ricetta migliore per il successo che unire il redditizio sottogenere ideato dal blockbuster Lo squalo di Steven Spielberg con il corpo più statuario di Hollywood, generosamente inquadrato in costanti ralenti che servono tanto a enfatizzare la suspense quanto a testimoniare il sottofondo voyeuristico dell’operazione.

Paradise Beach comincia in sordina, come altri film del regista Jaume Collet-Serra, specialista di thriller e horror (La maschera di cera, Orphans) dalle lente introduzioni, cui a un certo punto imprime accelerazioni brutali. La prima parte della pellicola è un’immersione nella bellezza incontaminata d’una spiaggia messicana senza nome, dove Nancy è venuta a fare surf per rendere omaggio alla madre scomparsa per malattia, che amava quel luogo. Nancy, l’inizio serve per costruire una seppur scarna cellula narrativa, è una studentessa di medicina che il dolore della perdita ha spinto a lasciare l’università, come capiamo da una videochat col padre.

Paradise Beach prosegue con le evoluzioni sulla tavola di Nancy e un paio di bellimbusti incontrati casualmente. Ed è il canonico stile da videoclip con musica martellante e soggettive gopro. Dopo l’Eden, la minaccia: la ragazza, a non più di cento metri dalla costa, avvista una carcassa di balena, e subito dopo le si palesa la causa di tanto scempio, uno spietato squalo bianco, che comincia a perseguitarla. Nancy si rifugia su uno scoglio che affiora dalle acque. Ma poiché dopo poche ore tornerà l’alta marea a inghiottire lo spuntone di roccia, per la protagonista comincia un’angosciosa corsa contro il tempo – sottolineata dalla comparsa di un cronometro subacqueo in sovrimpressione, cosa che fa assomigliare pericolosamente Paradise Beach a un programma trash da survival tv.

Come si sarà capito, per esilità della trama e stile visuale derivativo, Paradise Beach non è una riflessione filosofica sulla solitudine o una meditazione ecologica sul conflitto tra uomo e natura – anche se Nancy intuisce che forse lo squalo è stato attacco dall’uomo, il che dovrebbe “spiegare” la reazione aggressiva contro la donna. Il film è tutto nella caparbia lotta di Nancy contro l’animale, che funge da elaborazione del lutto e sfida alle proprie debolezze – sulla roccia è in compagnia d’un gabbiano con un’ala spezzata che, come lei, ha bisogno di reimparare a volare.

Jaume Collet-Serra non lesina effetti tipici del genere: inquadrature subacquee ben prima dell’arrivo dello squalo per anticipare la tensione, animalone a fauci spalancate che sbrana i malcapitati, Nancy novella Rambo (ma studia medicina!) che si sutura senza anestesia un’imponente ferita alla gamba. Paradise Beach perlomeno non aspira a particolari profondità e costruisce un film d’intrattenimento adrenalinico che, vista l’uscita nei cinema sul finire dell’estate, forse vuole ammonire lo spettatore, ricordandogli che è il caso di smettere di pensare al mare e tornare a più serie occupazioni.