“4 mesi, 3 settimane, 2 giorni” stasera in tv il manifesto del nuovo cinema rumeno

Appuntamento alle 21,15 su Rai 5 con la Palma d’oro di Cannes 2007. Il film che ha rivelato il talento del regista Cristian Mungiu e l’esistenza di una new wave di agguerriti cineasti rumeni. Che, dopo quarant’anni di regime comunista, hanno ritrovato la libertà espressiva e uno stile realista col quale riflettere sul passato prossimo.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni

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L’inquadratura frontale di due ragazze in un dormitorio universitario intente a preparare la borsa per quella che potrebbe essere un’allegra scampagnata. Ma il sottofondo d’un sinistro ticchettio d’orologio suggerisce tutt’altro tono, sottolineando un’urgenza che grava sulle due protagoniste. Comincia così 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni di Cristian Mungiu, il film che grazie alla Palma d’oro al festival di Cannes del 2007 ha imposto all’attenzione internazionale l’esistenza di una new wave del cinema rumeno emersa nel decennio zero.

Una cinematografia, quella rumena, inabissata per decenni e praticamente ignota al di fuori dei confini del paese, complice la lunga stagione nell’orbita del comunismo sovietico e la dittatura di Ceaușescu terminata con la rivoluzione del 1989. Ed è proprio una radiografia di quell’epoca che offre 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, storia ambientata nel 1987 di un aborto illegale – pratica vietatissima al tempo di Ceaușescu –, che stabilisce con nettezza i temi e lo stile espressivo prediletto dai giovani autori rumeni (oltre a Mungiu nomi come il Cristi Puiu di La morte di mister Lazarescu e il più sarcastico Corneliu Porumboiu di A est di Bucarest).

Per loro, in realtà, è improprio parlare di un vero e proprio movimento: “Non condividiamo gli stessi valori – è lo stesso Cristian Mungiu a sottolinearlo – e non veniamo dalle stesse scuole di cinema. Credo ci sia una notevole differenza nel modo in cui affrontiamo il cinema, anche se ci sono alcuni elementi che condividiamo: il modo di filmare, l’umorismo, l’attenzione che diamo agli attori”. Fattori che, umorismo a parte, sono chiaramente visibili in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni: una scabra vicenda, filmata con uno stile oggettivo che alterna lunghe inquadrature quasi fisse al pedinamento con camera a mano, che ruota intorno all’interruzione di gravidanza della studentessa universitaria Găbița (Laura Vasiliu) e alla sua amica Otilia (Anamaria Marinca), la quale si sobbarca i problemi pratici della questione.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è all’insegna d’una sgradevolezza controllata, in cui ogni passaggio del racconto, dalla prenotazione della camera d’albergo in cui eseguire l’aborto clandestino all’incontro col medico che dovrà praticarlo, restituisce la durezza di un ambiente in cui i rapporti umani si riducono a rapporti di potere, secondo una logica che è il puro riflesso di quanto determinato da decenni di soffocante regime. Persino le addette alla reception dell’hotel trattano sbrigativamente Otilia, per la semplice ragione che la posizione di vantaggio consente loro di approfittare d’una miserabile autorità. E il regista riprende queste sequenze dal punto di vista del bancone dell’accettazione, che si trasforma enfaticamente in una linea di divisione, fisica e ideologica, che separa la gente comune dalla classe che esercita un ruolo di comando.

Il modello di comportamento basato sul potere sagoma qualunque relazione: è lo stesso del medico che praticherà l’aborto, un uomo di insinuante ripugnanza (un magnifico Vlad Ivanov) che ricava da suo business clandestino tutti i benefici possibili. Ed è persino la modalità del rapporto tra le due ragazze, perché la sensazione che affiora progressivamente è che l’irresolutezza e il pur comprensibile smarrimento di Găbița, che deve subire l’intervento, siano anche una recita che le serve per manipolare l’amica Otilia e costringerla a sobbarcarsi gli aspetti più spiacevoli della vicenda.

4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è insieme una meditazione su di un argomento moralmente impegnativo come l’aborto e il ritratto sconsolato di un paese fotografato nel momento più buio della sua storia politica. Che può essere raccontato solo attraverso un realismo non distaccato ma oggettivo, che radiografa corpi e volti, i sussulti e la sofferenza di cui sono intrisi i rapporti tra i personaggi. Il film mantiene coerentemente uno stile trattenuto e sconsolato, ma poi sceglie di mostrare il feto morto in una improvvisa e insostenibile inquadratura in primo piano. Una bruciante impennata emotiva su cui la tenuta narrativa rischia quasi di collassare, sbriciolando il sottofondo politico del racconto e terminando in un buco nero forse emotivamente ricattatorio.

Ad ogni modo, qualunque cosa si possa pensare del finale, 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni è uno dei film più significativi degli ultimi anni di un autore imprescindibile del cinema contemporaneo. Per questo suggeriamo di non perdere la sua ultima opera, Un padre, una figlia, che uscirà il 30 agosto, con cui Cristian Mungiu ha vinto il premio per la miglior regia all’ultimo festival di Cannes e che si preannuncia, ancora una volta, come una problematica riflessione sulla moralità delle scelte individuali. Buona visione.