Il capitale umano: prima tv stasera su Rai Tre. E domani Virzì protagonista a Cannes

Alla Quinzaine de Réalisateurs sabato arriva Paolo Virzì con “La pazza gioia”. E stasera Rai Tre omaggia il regista trasmettendo il suo ritratto del capitalismo rapace in salsa italiana. Un’opera che però fallisce le sue ambizioni, come capita talvolta al bravo Virzi quando cerca il grande affresco.

Il capitale umano diretto da Paolo Virzì

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C’è grande attesa per La pazza gioia, bel titolo del nuovo film di Paolo Virzì con Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, in uscita il 17 maggio dopo il passaggio sabato 14 a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs. Perciò è assai tempistica la prima tv proposta stasera da Rai Tre del precedente film dell’autore livornese, Il capitale umano che quando uscì innescò non pochi dibattiti e polemiche. Perché, come s’intende sin dal titolo, il film affronta di petto il tema del capitalismo all’italiana, radiografato dall’angolo visuale d’una Brianza benestante e meschina, non troppo diversa da quel mondo che fotografava Giorgio Bocca nel famoso incipit di un’inchiesta sul boom economico a Vigevano negli anni Sessanta: “Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste”.

Il capitale umano è strutturato in tre capitoli, ognuno dei quali ripercorre la medesima vicenda, la disgrazia che causa la morte accidentale d’un cameriere, da un punto di vista diverso: quello di Dino (Fabrizio Bentivoglio), ambizioso immobiliarista che conosciuto il grand’uomo d’affari della zona, Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), fa un investimento azzardato e rischia di perdere tutto; quello di Carla (Valeria Bruni Tedeschi), la ricca moglie confusa e infelice del capitalista che cerca nel progetto della riapertura di un teatro – il valore della cultura, didascalicamente – un senso alla propria ricca ma inconsistente esistenza; e infine Serena (Matilde Gioli), figlia di Dino ed ex fidanzata del rampollo della famiglia del finanziere, coinvolta in qualche modo nell’incidente.

Il capitale umano ha l’ambizione di porsi come un affresco del paese Italia e della crisi di un modello sociale, prima ancora che economico. Sono almeno tre gli elementi che tradiscono le intenzioni alte di Virzì: il tono generale del film, cupo, con pochissimi elementi di commedia, enfatizzato da una fotografia livida e compatta, immersa in uno scenario prevalentemente invernale; il dialogo esplicito del sottofinale tra Giovanni, “il capitalista” e Carla, “la moglie insoddisfatta”, in cui la donna accusa il marito di aver vinto scommettendo sul fallimento del paese e lui ribatte che ha vinto anche lei, perché è parte integrante del sistema; infine, la didascalia finale, che sottolinea come il risarcimento pagato da Giovanni Bernaschi alla famiglia del cameriere sia stato quantificato attraverso il calcolo del “capitale umano” della vittima, ridotta a puri termini economici, senza considerare il valore intrinseco della vita umana.

L’economia come metro di ogni cosa e la finanza, incarnata dal personaggio di Gifuni, che plasma stili di vita, sogni, relazioni d’una comunità rappresentativa dell’intero paese: ecco la sostanza de Il capitale umano. A non convincere, viste premesse e intenzioni, è la scelta di Virzì di non guardarlo in faccia questo capitale per narrarne i meccanismi. Tra i vari punti di vista, cioè, manca proprio quello di Giovanni Bernacchi, colui che palesemente muove le fila di azioni, sentimenti e motivazioni di tutti. Virzì mostra Gifuni nudo per simboleggiare quanto sia disinibito il potere economico, ma forse avrebbe potuto sottoporre il capitale allo stesso processo di denudamento, per spiegarne più dettagliatamente il funzionamento. Facendo altrimenti, il messaggio veicolato dal film si riduce quasi a pregiudizio moralistico sulla malvagità del denaro che produrrebbe necessariamente l’imbarbarimento dei valori e un generale inaridimento emotivo. E invece sarebbe stato assai più fecondo ribaltare questa prospettiva un po’ legnosa assumendo la prospettiva del burattinaio, con tutti i pericoli di “seduzione” che ciò avrebbe potuto comportare.

I ritratti unidimensionali dei personaggi prima che da difetti di sceneggiatura originano dal limite di essersi rimasti inchiodati a un punto di vista esteriore e tranquillizzante, che non tocca con mano la realtà ma presume di sapere già tutto sul mondo che sta per raccontare: e così dimentica di raccontarlo davvero con la dovuta curiosità e la corrispondente dose di rischio. Allora il professore di teatro di Luigi Lo Cascio è un intellettuale dalle tipiche manie sentimentali – che consuma l’amplesso con la Bruni Tedeschi mentre guardano Nostra signora dei turchi di Carmelo Bene, momento involontariamente comico del film –, il figlio del finanziere è un macho estroverso ma intimamente fragile e schiacciato dalla pressione competitiva cui è sottoposto, Valeria Bruni Tedeschi è monoliticamente insoddisfatta e in crisi, il ragazzo sensibile è pallido, disegna fumetti molto dark e ha tentato il suicidio; e i rapporti umani sono all’insegna di un’ipocrita grettezza utilitaristica. Il capitale umano, rischia la didascalia, l’enfatizzazione, la sottolineatura prevedibile: perché ciò che dovrebbe costituire il fulcro del racconto – la potenza seduttiva del capitale – ne resta lo sfondo scontato e il film si perde seguendo l’intreccio di un’indagine poliziesca dagli esiti abbastanza prevedibili.