Lo chiamavano Jeeg Robot: un irresistibile supereroe di borgata

È una bella sorpresa il film di supereroi dell’esordiente Gabriele Mainetti. Una via italiana al genere, che sa mescolare fumetto e storia di malavita, realismo e grottesco. Ottimi i protagonisti: l’eroe Claudio Santamaria e il sempre più convincente Luca Marinelli, cattivo di lusso.

Lo chiamavano Jeeg Robot supereroe italiano

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Era stata la sorpresa dell’ultimo festival del cinema di Roma, che ha trasformato l’uscita di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film di supereroi all’italiana firmato dall’esordiente Gabriele Mainetti, che pure partiva da un budget limitato, in un fenomeno molto atteso. E anche la strategia di lancio s’è arricchita, supportando le 250 copie in sala con la pubblicazione in contemporanea d’una versione a fumetti del film abbinata alla Gazzetta dello Sport.

Va subito detto, senza mezzi termini, che Lo chiamavano Jeeg Robot funziona, come storia di supereroi e, allo stesso tempo, racconto italiano. Lo scheletro della vicenda è quello tipico da fumetto: Enzo Ceccotti è un disgraziato ladruncolo quasi sociopatico di Tor Bella Monaca, che per sfuggire alla polizia si nasconde nelle acque del Tevere, entrando in contatto con dei bidoni di rifiuti tossici che gli forniscono un potere sovrumano.

Appena si rende conto delle sue capacità le sfrutta immediatamente in chiave criminale: e naturalmente si fa notare, soprattutto da una banda scalcagnata guidata dallo psicopatico Zingaro (grandioso villain di Luca Marinelli), che per fare il salto di qualità è entrato in affari con la camorra, e vorrebbe tanto il misterioso delinquente mascherato con lui. Il terzo lato del triangolo è la tenera Alessia (Ilenia Pastorelli), che abita nel palazzo di Enzo: le violenze subite dal padre e la morte della madre l’hanno traumatizzata al punto che s’è creata una vita parallela, in cui la realtà ha assunto i contorni fumettistici di Jeeg Robot d’acciaio, l’eroe giapponese dei cartoon anni Settanta. Enzo, suo malgrado, come si dice a Roma, “se l’accolla”, e quella donna gli cambia la vita.

Non diciamo di più della trama, che Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone gestiscono con buona scioltezza, tra colpi di scena e un tratteggio sicuro soprattutto dei caratteri, forse col solo difetto di accumulare troppe cose, che a un lungometraggio d’esordio si perdona certamente. La forza di Lo chiamavano Jeeg Robot sta proprio nell’essere una vicenda italiana, e forse anche nei limiti di budget, che impediscono quel gigantismo tecnologico che spesso anestetizza i film americani, visivamente sbalorditivi ma senza un autentico cuore pulsante. Storie che sembrano svolgersi in un altrove senza coordinate spaziali e sociali, mentre qui, sarà perché siamo a casa e riconosciamo immediatamente luoghi, cadenze, tipi umani, tutto ci sembra caldo e familiare.

Enzo è uno sfigato dallo sguardo torpido e l’aria imbufalita del borgataro che non ne ha imbroccata una nella vita, spiccica pochissime parole e si scioglie solo quando racconta ad Alessia la sua vita d’adolescente di periferia, col gruppetto di amici dai soprannomi assurdi che hanno fatto tutti una brutta fine.

Lo Zingaro è impagabile: è sadico e violento come si addice al supercattivo, ma soprattutto è un mitomane disgraziato che “vuole fare il botto”, si diverte a travestirsi cantando come Anna Oxa e la sua massima aspirazione è sfondare in tv, come un coatto qualunque. Gente che non ha mai avuto una chance: e allora la capisci Alessia, che in mezzo a questo marasma sceglie la lucidità della follia e s’inventa un universo parallelo più sopportabile.

Perché la realtà è brutta assai e Lo chiamavano Jeeg Robot la racconta senza eufemismi, rappresentando una violenza che, certamente più grottesca e iperrealista, non è molto diversa da quella di Romanzo criminale e Suburra. O Gomorra anche, visto che ci sono i camorristi napoletani guidati dalla crudele boss al femminile Nunzia (Antonia Truppo), e che nella gang c’è pure la faccia ormai iconica di Salvatore Esposito.

A Mainetti l’epica supereroistica serve soprattutto per mettere a confronto la realtà dalle tre inaccettabili dimensioni con un mondo bidimensionale più gestibile, con il continuo andirivieni tra l’una e l’altro. È la stessa filosofia di un suo precedente cortometraggio, Basette, in cui il rapinatore Valerio Mastandrea racconta la propria vita come fosse quella dell’eroe dei cartoni giapponesi Lupin III, per renderla più tollerabile e tingerla di colori favolistici. Stavolta, in Lo chiamavano Jeeg Robot, eroi lo si diventa per davvero: ma siamo lontani dalla serietà un po’ ridicola dello stile classico da supereroi. Basterebbe la battuta dello Zingaro, che si rivolge a Enzo con un esilarante “Ma che t’ha mozzicato ’n ragno?”, per disattivare i cliché più consunti del genere. E così la storia acquista spessore, e la metamorfosi in eroe è sì possibile – non a caso proprio in periferia – ma è una faccenda assai più complicata, e pure dolorosa, di come ce la vorrebbero raccontare certi fumettoni statunitensi.

Forse questa cosa dipende anche dal fatto che noi italiani storicamente ci rappresentiamo sempre come un po’ cialtroni e infingardi – basta ripercorrere la storia del nostro cinema popolato di inetti, vigliacchi e perdenti – e così trasformarci in eroi a queste latitudini sembra davvero qualcosa di inimmaginabile. Ma questo rende il racconto molto più credibile e divertente. E regala una sensazione di riscatto, al protagonista e agli spettatori che si immedesimano in lui, ancora più appagante.
https://youtu.be/y8nHHmSiKzM