The Hateful Eight: ritorno alla realtà (e al cinema classico) di Quentin Tarantino

L’ottavo film di Tarantino è un western strutturato come un giallo di Agatha Christie. Che, nonostante il massiccio uso di violenza, ha un impianto più serio. Dal quale emerge l’attenzione alla Storia e ai temi politici, il razzismo su tutti. È il suo film più “classico”, che non guarda al pulp, ma a John Ford.

The Hateful Eight di Quentin Tarantino

INTERAZIONI: 108

“Resisti Daisy ti voglio guardare”, dice quasi alla fine di The Hateful Eight il maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson) a Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), unica, ferocissima donna in mezzo a un mucchio selvaggio di maschi nello spazio concentrazionario d’una locanda. Tarantino vuole guardare e farci guardare, insistentemente: perché questa è l’essenza del cinema, che il regista rivendica nel suo ottavo film con otto protagonisti (e l’omaggio a Fellini è voluto, per ricordare un altro artista avvinto dalla forza primigenia della visione, connaturata al cinema).

La storia è assai lineare: qualche anno dopo la fine della Guerra Civile americana (1861-1865), il cacciatore di taglie John Ruth “Il Boia” (Kurt Russell) trasporta su una diligenza la criminale Daisy, per consegnarla alla giustizia. Con lui viaggiano l’ex militare nordista di colore Warren, ora bounty killer, e l’ex rinnegato sudista Mannix (Walton Goggins), che dichiara di essere il nuovo sceriffo. Una tormenta di neve li obbliga a fermarsi in una locanda: nella quale c’è un gruppo di uomini (tra cui le facce tarantiniane di Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern), di cui Ruth non si fida, temendo siano complici della prigioniera o interessati alla taglia di diecimila dollari che pende sulla testa della ragazza. Di qui comincia un estenuante gioco al massacro dialettico, destinato a diventare un massacro vero e proprio.

Sebbene sia verbosissimo come una pièce teatrale, tutto in questo film richiama il concetto di visione, espresso alla sua ennesima potenza. Ecco la ragione della scelta dello strombazzatissimo Ultra Panavision in 70 mm, un formato panoramico con un rapporto di 2,76:1, cioè con la base dell’immagine che è quasi il triplo dell’altezza. Eppure di panorami in The Hateful Eight ce ne sono ben pochi dato che, dopo il prologo in esterni, il film si svolge integralmente al chiuso. Ma a Tarantino questo riquadro di dimensioni esagerate non serve per mostrare gli spazi sconfinati del vecchio western.

Tarantino, invece, vuole ribadire la natura stessa del cinema, con un’operazione di fiducia assoluta, forse anacronistica, nella settima arte (che sia anacronistica è il primo a sospettarlo, altrimenti perché richiamare in vita un formato usato per l’ultima volta nel 1966?). E l’essenza del cinema sta tutta nell’atto di guardare, nella capacità di vedere e mostrare le cose con un nitore e una precisione inimmaginabili per l’occhio umano.

In The Hateful Eight il formato panoramico quindi serve per registrare la realtà in modo esatto, completo e trasparente, amplificando sino al parossismo anche il più impercettibile dei dettagli. Come se le cose esistessero solo al fine di essere filmate e mostrate. Sotto il nostro sguardo scorrono e acquistano corposità fenomeni altrimenti evanescenti: la consistenza soffice, leggera della neve che cede sotto la pressione del lento incedere degli zoccoli dei cavalli; l’aria esalata dagli uomini in volute di fumo materiche; persino la sensazione del freddo diventa qualcosa di duro e compatto, tramite la precisissima messinscena tarantiniana che attraverso un’orchestrazione di oggetti, tagli di luce, cromatismi pastosi riesce a trasformare il gelo in un fatto fisicamente evidente.

Ogni cosa acquista densità e spessore in The Hateful Eight, sottoposta a uno sguardo cinematografico implacabile, che mantiene tutto nel campo della visione. Lo dimostra icasticamente una lunga sequenza fissa in cui il soggetto in primo piano e quelli sullo sfondo vengono inquadrati alternativamente attraverso il cambio della messa a fuoco, in un ripetuto andirivieni dall’uno agli altri così vistoso da rendere percettibile allo spettatore persino la presenza della camera che filma.

Tarantino dispone il suo cinema con forza quasi militare, dal gigantismo del formato alla macchina da presa onnisciente che fruga in ogni direzione, certo che nulla le sfugga. Potrebbe sembrare, secondo una critica che talvolta gli viene rivolta, semplicemente il riflesso della megalomania di un autore abituato ad avere tutto ciò che la sua sfrenata ambizione richiede: persino, infantilmente, lo schermo più grande del mondo. Ma a muoverlo non è il titanismo, bensì l’infinita nostalgia per il cinema com’era una volta. Un cinema che costituiva il centro degli interessi collettivi e il punto più avanzato dell’avanguardia culturale (registi come Fellini appunto, l’intellettuale innovatore che faceva pure centro al botteghino). Un cinema che, soprattutto, narrava delle storie coerenti con il vissuto e le emozioni degli spettatori, delineando una realtà riconoscibile e condivisa.

Ed è il racconto della realtà fisica l’obiettivo che Tarantino insegue con tanta smagliante evidenza in The Hateful Eight. Per lungo tempo il gusto della realtà e delle storie imbastite per rappresentarla erano come finite tra parentesi, dissolte sotto la spinta di quel fenomeno ampio ed eterogeneo ricaduto sotto il nome di postmodernismo. Il quale, partendo dall’idea filosofica della crisi – delle grandi narrazioni, del soggetto, della distinzione tra cultura alta e bassa – si è tradotto in sede estetica in un modello di narrazione indebolita, non più incardinata sulla linearità del racconto, con la spazializzazione della temporalità e il conseguente mescolamento di passato, presente e futuro. Nessuno lo sa meglio di Tarantino, il cui fondamentale Pulp Fiction (1994) fu la traduzione in immagini – quasi un bignami – di quanto i teorici andavano sostenendo da tempo: dissoluzione della progressione narrativa e conseguente ricombinazione capricciosa dei tre assi temporali, distacco ironico – e conseguente impiego “ludico” d’una violenza che è occasione d’intrattenimento e non di riflessione morale –, uso disinvolto e non gerarchizzato di materiali alti e bassi, gusto onnivoro della citazione.

Il punto è che questo modello narrativo, a partire dagli exploit di Tarantino, è diventato una regola dilagata in mille rivoli, dal cinema alla televisione. E gli spettatori ormai si sono abituati a trame piene di andirivieni temporali, cervellotiche come puzzle, oppure a storie insaporite con tutte le spezie possibili, pastiche linguistici, mescolamento dei generi, citazioni a manetta. E quando la novità diventa consuetudine, è facile che il piatto ormai insipido venga a noia, facendo affiorare la voglia di qualcosa d’altro. A Tarantino è successa la stessa cosa accaduta a studiosi e teorici del postmoderno i quali, dopo aver assaporato l’elettrizzante emozione di un’epoca di appagante relativismo senza più fatti ma solo interpretazioni, hanno cominciato a sentire nostalgia della confortevole sensazione di poggiare i piedi su una superficie solida e stabile. Quella è la realtà: che per i filosofi ha assunto le fattezze di un’altra teoria, il nuovo realismo; e per Tarantino non poteva che assumere la forma del ritorno al cinema di una volta.

Quindi ha smesso di rimestare nella serie b, trash e pulp: ed è passato, in Inglourious Basterds (2009) e Django Unchained (2012) ai generi tradizionali, guerra e western. Naturalmente, trattandosi di Tarantino, era inimmaginabile una conversione integrale alla compostezza classica. Per cui ognuno di questi film presenta degli ingredienti che appartengono alla sua indole, dal film bellico che s’ispira a una pellicola minore italiana al massiccio impiego di violenza splatter.

Ma resta, comunque, il segnale forte di un cambiamento, che The Hateful Eight conferma. Qui, ancora una volta, c’è il ripiegamento e il ripensamento del passato, con la tematizzazione della Storia con la S maiuscola, raccontando l’odio razziale non estinto dalla fine della Guerra Civile, in un paese nel quale tutti, ancora, si riconoscono quali nordisti o sudisti e dove, per cercare di trovare una tregua al conflitto montante, il personaggio di Tim Roth propone addirittura di dividere in due la locanda.

Rispetto allo spiazzante gusto per lo sberleffo di Tarantino, che nel precedente film fa morire Hitler in un cinema durante la proiezione di un film propagandistico, The Hateful Eight mostra una sostanza che si potrebbe definire più “politica”: attestata dalla centralità del personaggio di Warren e da un efficace colpo di scena dopo oltre due ore di film (che non sveleremo), che mostra chiaramente quanto il tema razziale non sia un semplice pretesto. Il percorso di ripensamento è anche dimostrato dall’impiego, sorprendente in un dinamitardo sovvertitore delle regole come Tarantino, di un modello di narrazione più lineare, esemplato sul giallo alla Agatha Christie, con il mistero da sciogliere di un delitto di cui chiunque potrebbe essere il colpevole. E lascia ammirati il modo in cui il regista, dopo dosi quasi insostenibili di violenza, sappia immaginare un finale in cui il tono vira verso l’elegia, con i sopravvissuti a meditare sulla verità e la menzogna e a farsi irretire, come il Ford de L’uomo che uccise Liberty Valance, dall’illusoria necessità della leggenda e la forza seducente della parola. Nel modo molto peculiare di Tarantino, è il segno dell’abbandono dello sberleffo fine a se stesso e del ritorno alla realtà (e, forse, anche alla morale).