Il ponte delle spie: il film di Spielberg che sarebbe piaciuto a Frank Capra

Ispirato a una vicenda reale, un racconto della guerra fredda con al centro un avvocato, magnificamente interpretato da Tom Hanks, che difende una spia comunista. Un film dal respiro classico, che parla di umanesimo e democrazia. E una riflessione attualissima su media, manipolazione e propaganda.

Il ponte delle spie Spielberg dirige Tom Hanks

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Steven Spielberg ormai è un classico. E cadenze da classico ha Il ponte delle spie, che parla di umanesimo e democrazia con uno stile che sarebbe piaciuto a Frank Capra. Spielberg racconta una storia di guerra fredda e spionaggio eliminando intrighi e ombre, stagliando i personaggi nella piena luce dei bagliori luminosi che dalle finestre retrostanti s’irradiano su di loro. Il protagonista d’una vicenda ispirata alla realtà è l’avvocato Donovan (Tom Hanks), “l’uomo tutto d’un pezzo” che prende le parti della spia sovietica Rudolf Abel (Mark Rylance). Donovan non difende solo l’uomo, ma i valori della democrazia; e ai cosiddetti patrioti che lo criticano perché assiste un comunista ricorda che in ballo ci sono i princìpi della Costituzione americana.

Abel scampa alla pena capitale, ma non all’ergastolo. A questo punto comincia la seconda parte de Il ponte delle spie: i sovietici catturano l’aviatore Powers, impegnato in un’azione di spionaggio, e la Cia assolda Donovan per negoziare uno scambio di ostaggi. L’avvocato porta nella Berlino divisa tra Est e Ovest in cui stanno costruendo il muro la sua rettitudine di uomo giusto e senza ambiguità. E avrà la meglio – come mister Smith che va a Washington smascherando con la forza dell’onesta l’ipocrisia dei politicanti – sugli agenti doppiogiochisti russi, americani e tedeschi, per i quali la guerra fredda è una partita a scacchi fatta di finzioni e simulazioni. A Donovan invece importa solo salvare vite umane – l’analogia con Oskar Schindler è evidente.

Il ponte delle spie non è un film d’azione ma, come Lincoln, è incentrato sul potere della parola quale pilastro della democrazia. Infatti alla prima apparizione vediamo Donovan affrontare una banale causa per tamponamento e correggere puntualmente le imprecisioni interpretative dell’avvocato dell’accusa, non con stile da azzeccagarbugli manipolatore, ma col pragmatismo dialettico di chi conosce l’importanza dei concetti chiari e distinti. Secondo i quali Abel, poiché straniero, può essere considerato un nemico, ma non un traditore, perché serve fedelmente l’Unione sovietica.

Il ponte delle spie non rinuncia, soprattutto nel granitico ritratto di Donovan, a una certa retorica patriottarda. Forse per questo, per sporcarne l’eccessivo idealismo sono stati chiamati i fratelli Coen in fase di riscrittura della sceneggiatura. Però, nonostante il tono ottimista, Il ponte delle spie rilancia riflessioni taglienti sui rischi di manipolazione dell’informazione. Questione attualissima, vista la narrazione aggressiva e concitata che di tanti “nemici” offrono media e politica.

Nel momento in cui, durante il processo, il pubblico si alza all’arrivo del giudice che emetterà la sentenza, Spielberg fa un azzardato stacco di montaggio su una scolaresca che, dopo aver salutato la bandiera, viene indottrinata da un filmato propagandistico sul pericolo rosso e il rischio nucleare. Insomma, certezza del diritto e patriottismo si riducono a gusci vuoti in mancanza di un’opinione pubblica di adulti consapevoli. Tali non sembrano quei cittadini, trattati come bambini da un’informazione partigiana, i quali dopo il processo gettano un’occhiataccia su Donovan, quasi fosse un cospiratore antiamericano, mentre poi, quando salva l’aviatore Powers, lo guardano ammirati come un eroe. Qualcosa, evidentemente, non funziona.