Sentieri selvaggi: stasera in tv c’è John Wayne nel suo ruolo più sorprendente

Appuntamento su Rete 4 alle 21.15 con il maestro del western John Ford. Il suo film più controverso, con John Wayne nel ruolo cupissimo di un uomo ossessionato dall’odio verso gli indiani. Un’opera problematica, a tratti sgradevole. Il capolavoro dell’ultimo periodo del regista.

Sentieri selvaggi western con John Wayne

INTERAZIONI: 49

Le inquadrature più celebri del capolavoro di John Ford Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956) sono la prima e l’ultima, praticamente gemelle. Vi si vede, ripresa dall’interno, la soglia di una casa: al di là di essa c’è la luce dello spazio esterno, al di qua il buio dell’interno familiare. Ma non bisogna farsi ingannare: la luminosità connota un panorama deserto e inospitale, denso di pericoli; mentre l’oscurità dell’interno nasconde la dolcezza e la sicurezza di un focolare domestico.

La soglia taglia in due il mondo e definisce le coordinate spaziali e morali del film. Nella prima scena vediamo il protagonista Ethan Edwards (John Wayne) tornare, dopo una fallimentare Guerra civile combattuta da sudista, alla casa del fratello Aaron, sposato alla donna, s’intuisce dal comportamento di entrambi, che Ethan amava. Con loro due figlie, che lo chiamano zio, e Martin (Jeffrey Hunter), adottato e con sangue indiano, da cui Ethan non vuole assolutamente essere chiamato zio.

Nell’ultima sequenza si ripete sostanzialmente la stessa dinamica ripresa dal medesimo punto di vista. Stavolta Ethan ritorna con una giovane ragazza indiana, che viene accolta in casa. Ethan resta sulla soglia, incapace di superarla. Si volta e se ne va, con una lentezza che lo fa sembrare claudicante, mentre la sua sagoma si rimpicciolisce dirigendosi verso l’orizzonte. La ripresa è solo apparentemente identica. Perché la casa inquadrata (e la soglia, e la famiglia) è un’altra. Quella di Ethan è stata distrutta anni prima dagli indiani comanche, che hanno sterminato la sua famiglia, risparmiando solo la bambina Debbie, che hanno rapito. E da allora Ethan e Martin non hanno fatto che inseguire i pellerossa, nella speranza di ritrovarla.

Anche la scena in cui Ethan torna a casa e scopre l’avvenuta tragedia è ripresa come le altre due: stavolta dalla soglia la sagoma in ombra di Ethan osserva l’interno dell’abitazione, non più luogo della tenerezza familiare ma dell’orrore. E da quel cono d’ombra il personaggio non uscirà più, diventando uno sradicato senza più legami e affetti, segnato solo dall’odio e dalla sete di vendetta.

Sentieri selvaggi, stabilmente segnalato nei sondaggi dei critici tra i massimi capolavori della storia del cinema, è un esito altissimo nella filmografia di John Ford e l’opera più singolare del grande regista di origini irlandesi. Perché è un film lontano dal classicismo di un Ombre rosse, e invece cupissimo, dominato dal carattere malsano di Ethan, cui Wayne regala accenti d’insospettabile complessità, in una interpretazione memorabile. Un uomo sgradevole, duro e arido come lo scenario roccioso della Monument Valley che incornicia la vicenda, ossessionato da Scar (Henry Brandon), il guerriero comanche che gli ha rapito la nipote. Rispetto alla quale i suoi sentimenti sono non meno contorti: perché, consapevole di come gli anni di vita indiana potrebbero averla trasformata, sembra disposto a ripudiarla, se non addirittura a ucciderla.

Anche il rapporto con Martin è all’insegna del rifiuto: Ethan non manca di rimarcare l’estraneità di sangue da quel giovane meticcio e tra loro non scatta mai una dinamica esemplare padre/figlio. L’inesausta ricerca di Debbie non è un’impresa vissuta insieme, ma uno contro l’altro, con Martin sempre a sorvegliare Ethan nel timore possa fare del male alla ragazza. Una paura corretta, perché Ethan è intimamente razzista e odia gli indiani: ne oltraggia persino i cadaveri prendendo loro lo scalpo, imitandone quindi in maniera contraddittoria i medesimi comportamenti.

Il tortuoso personaggio di Ethan apre l’ultima fase della carriera di John Ford, in un gruppo di western che segnano un pessimistico ripensamento della sua poetica, spogliando il passato dei colori del mito e mettendone in luce aspetti problematici. L’artista che aveva raccontato l’età della frontiera come il momento di fondazione dei valori e della modernità della civiltà americana, traccia invece in Sentieri selvaggi un ritratto di tutt’altro sapore. Nel quale la frontiera diventa un luogo inospitale: nessuna traccia delle città, che del processo di civilizzazione sono simbolo evidente, ma solo sparute case conficcate nel deserto e abitate da pionieri che da quelle terre aride cercano di spremere i succhi di una vita possibile. Una sfida portata avanti da piccoli nuclei familiari, nell’assenza di una solida e accogliente comunità. In realtà, una comunità allargata esiste, è quella degli indiani: che Ford rappresenta fiera, violenta, ma con le proprie ragioni, costruendo a partire da questo film un ritratto di quella cultura sempre più articolato e rispettoso, in linea con quanto il cinema americano aveva cominciato a fare da L’amante indiana in poi.

Ethan è il simbolo di un’epoca giunta al tramonto: il mondo degli eroi inquieti e vagabondi del vecchio west, attratti dall’avventura, il gusto della sfida e della scoperta. Senza famiglia e senza progetti, incapaci di fermarsi e dare una forma stabile alla propria vita e all’ambiente naturale, che non sanno, come i coloni, trasformare nel giardino di una comunità stanziale.

E giustamente Sentieri selvaggi racconta questa storia, pur alleggerita dalla tipica ironia fordiana, nei toni di una tragedia: perché Ethan Edwards, l’uomo che sceglie consapevolmente di restare oltre la soglia, allontanandosi nel nulla di un ostile deserto, è inequivocabilmente un eroe tragico, spia del declino di un mondo antecedente alla civiltà e alla modernizzazione. Quello dei cavalieri liberi e selvaggi, cui Ford però sottrae l’alone del mito e della leggenda, ritraendoli nella loro ambigua grandezza, fatta di libertà e indomabile coraggio, ma anche odio, ossessioni, pregiudizi. È anche per questo che Sentieri selvaggi resta un capolavoro: perché è un film ricco di contraddizioni, tematiche e stilistiche, il più scomposto, e a tratti sgradevole, di un regista solitamente identificato con un ideale di classicità. Una definizione che certamente gli appartiene, ma che, soprattutto alla luce dell’ultima parte della sua carriera, gli sta decisamente troppo stretta.