Il mucchio selvaggio: stasera in tv c’è il capolavoro western di Sam Peckinpah

Appuntamento alle 21 su Iris con il film che ha cancellato il mito della frontiera, raccontando un west dove tutti, donne e bambini compresi, sono potenziali assassini. Un punto fermo nella riflessione sulla fascinazione della violenza, tema centrale del cinema di Peckinpah.

Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah

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Un uomo fatto apposta per dividere che ha messo tutti d’accordo. Perché il regista Sam Peckinpah, carattere inflessibile e autodistruttivo, più croce che delizia dei producer hollywoodiani, ha firmato con Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969) un’opera che ha retto le polemiche e l’usura del tempo, finendo per essere annoverata dalla stragrande maggioranza degli esperti tra i massimi capolavori del cinema, non solo americano.

Il mucchio selvaggio è un film di pessimismo integrale che racconta di un gruppo di fuorilegge guidati da Pike (un William Holden lontanissimo dal suo antico charme da comedian) e Dutch (Ernest Borgnine) che accettano di rubare un carico di fucili per conto del sedicente generale messicano Mapache (Emilio Fernández), in guerra contro i rivoluzionari di Pancho Villa. Quando il militare scopre che il messicano del mucchio selvaggio, Angel (Jaime Sánchez), ha sottratto una cassa di armi da destinare ai ribelli, lo tortura: gli altri banditi sulle prime lo lasciano fare, poi reagiscono. E sarà un massacro.

La cultura americana ha tra le sue mitologie più consolidate quella della “seconda occasione”, l’opportunità data a tutti di ricondurre sui giusti binari la propria esistenza. Non c’è racconto che neghi più radicalmente questo principio costitutivo dell’identità statunitense de Il mucchio selvaggio. Non solo perché i protagonisti sono dei criminali impenitenti che, al di là di un’embrionale etica del gruppo, non hanno alcun valore più generale a muoverli. Ma soprattutto perché è il mondo intorno a essersi rattrappito a un modello da homo homini lupus, in cui tutti sono nemici di tutti. Pistoleri e militari, donne e bambini, americani, messicani e tedeschi: dietro la sagoma di qualunque essere vivente si cela un potenziale assassino, in un film incorniciato tra due feroci carneficine e sintetizzato da una raccapricciante allegoria visiva in cui delle formiche uccidono uno scorpione mentre i bambini osservano divertiti, dando fuoco agli insetti.

E benché d’insetti si parli, il Peckinpah de Il mucchio selvaggio non può certamente essere definito un “entomologo”, secondo una metafora assai cara ai critici cinematografici. Perché gli entomologi sono freddi e distaccati: tutto il contrario di Peckinpah, di cui s’intuisce a ogni inquadratura la tristezza che lo attanaglia nel mettere in scena questo mondo incrudelito. Lui piuttosto è un etologo, che s’ispira alle teorie sull’aggressività di Konrad Lorenz reinterpretate, sulla scorta di un autore che amava molto, Robert Ardrey, in una chiave fosca e disperatissima.

Il suo west, in film che mantengono una notevole coerenza tematica da La morte cavalca a Rio Bravo (1961) a Pat Garrett e Billy the Kid (1973), racconta una realtà postuma a se stessa, che non nutre più speranze, senza valori e corrotta da un capitalismo che non ha portato legge e ordine ma solo un’ambizione sfrenata e rapace. E infatti ne Il mucchio selvaggio, i protagonisti perseguono sì i propri limitati obiettivi, ma senza illudersi di poter mutare l’ordine generale delle cose.

Ma allora, se non credono più in nulla, tantomeno in una morale, per quale ragione decidono di sfidare Mapache per riprendersi l’ormai moribondo Angel? Forse non c’è un perché: infatti quando Pike chiede agli altri se intendono seguirlo in quest’ultima folle impresa loro semplicemente ribattono, con una battuta divenuta proverbiale, “Why not”, “Perché no”. E le interpretazioni possono sprecarsi: nichilismo, cupio dissolvi d’un gruppo d’uomini superati dalla storia che scelgono di essere spazzati definitivamente via, romanticismo sfrenato d’un regista anarchico nutrito dall’idea che, sebbene spregevoli, quei banditi restino comunque migliori del mondo che è loro intorno.

Quando Il mucchio selvaggio uscì ci si interrogò a lungo sull’abnorme violenza presente, esasperata dall’uso insistito del ralenti, che rende impossibile sottrarsi alla vista dei copiosi fiotti di sangue che intasano il gigantesco formato panoramico del film. Perché tanto orrore? Per raccontare la violenza con il necessario realismo, certamente, senza i toni eufemistici di quei vecchi western nei quali i cowboy venivano uccisi in maniera talmente asettica da far credere che la morte fosse uno scherzo. Invece le immagini grondanti rosso del film restituiscono l’inaggirabile bestialità della faccenda. Con anche, nel compiacimento del rallentatore, l’ambiguo effetto di fascinazione che la violenza ha sull’uomo – perché in ognuno di noi s’annida un istinto animalesco sempre sul punto di esplodere, come Peckinpah avrebbe ribadito nell’angosciante Cane di paglia, in cui un mite matematico si trasforma in un assassino spietato (perché nemmeno la cultura rende immuni dalla brutalità).

Forse pure per questo Il mucchio selvaggio ha messo tutti i critici d’accordo: una volta eretto il monumento imperituro alla memoria, di Peckinpah si è potuto tranquillamente smettere di parlare, aggirando la natura disturbante del suo cinema. Che non riveste la violenza di quella patina ironica – come accade a tanti film postmoderni, da Leone a Tarantino –, che consente di osservarla con sguardo distanziante e persino divertito. Nei film di Peckinpah il racconto ha sempre un passo estremamente serio, immerso in un dramma dai riverberi malinconici per un’epoca edenica, irrimediabilmente passata, in cui gli uomini erano ancora tali. Ma ormai il suo cinema allarmante è come sigillato dentro una teca: se ne apprezza ancora la lezione e la perfezione formale, ma come di un classico che ammiriamo senza che ci riguardi davvero. In caso di emergenza rompere il vetro: forse è arrivato il momento.