Dove eravamo rimasti: una sorprendente Meryl Streep a tutto rock

La Streep canta e suona davvero nel nuovo film di Jonathan Demme, in cui interpreta una madre che ha abbandonato marito e figli per inseguire i sogni da rockstar. Un film sulla vita che offre una seconda occasione. E sull’America, il paese in cui valori ed emozioni passano attraverso le note d’una canzone.

Dove eravamo rimasti Meryl Streep a tutto rock

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Quando si deciderà Jonathan Demme a girare un musical? Si tratti di fiction o documentari – su Talking Heads, Neil Young, Enzo Avitabile –, riesce sempre a filmare la musica come si stesse materializzando lì per lì, quasi un’improvvisazione casuale, rubata dal vivo da una macchina da presa discreta e sensibile.

È grazie alla musica che la sceneggiatura piuttosto tradizionale di Diablo Cody alla base di Dove eravamo rimasti, nuovo film di Demme, si trasforma in una riflessione sincera su ferite e rimorsi d’una donne cui la vita fornisce una seconda occasione. Ricki (Meryl Streep, canta e suona realmente) è la vocalist del gruppo Ricki and The Flash, che passione per la musica e sogni da rockstar hanno spinto ad abbandonare marito e tre figli. Passati molti anni, la passione è intatta, i sogni svaniti: Ricki lavora come commessa e la sera s’esibisce in un bar californiano pieno dell’umanità semplice di un’America proletaria.

L’ex marito Pete (Kevin Kline) le chiede di tornare a Indianapolis, perché la figlia Julie (Mamie Gummer, davvero figlia della Streep) è caduta in depressione dopo che il coniuge l’ha abbandonata. Ricki è costretta a confrontarsi con un mondo alieno e ostile: catapultando il suo stile di vita da rocker in bolletta perenne in una magione altoborghese dell’Indiana, con una famiglia che non le perdona le scelte discutibili.

La storia della seconda occasione è un classico americano: come tipici sono alcuni snodi psicologici del film (la rabbia di Julie verso la madre che si trasforma in riaccettazione, il rigido Pete che prova un profondo affetto per il bizzarro amore di gioventù) e scene da cinema anni Ottanta (il passaggio dall’estetista della trasandata Julie per ritrovare bellezza e autostima). Demme e Cody lavorano sui dettagli per salvare il film dalla prevedibilità: puntando sul ribaltamento dei ruoli (perché stavolta è la madre ad aver abbandonato i figli) e il gioco impercettibile degli sguardi (impagabile quello di Pete quando la rivede, tra sussiegosa riprovazione da uomo maturo e ammirazione incondizionata da adolescente innamorato), dai quali traspaiono non solo sentimenti ma conflitti di classe.

Alle occhiatacce dei vecchi amici che la trafiggono al matrimonio del figlio, Ricki risponde a modo suo, cantando My love will not let you down di Springsteen. Versi che sembrano scritti per Dove eravamo rimasti: “Devo abbattere tutte le tue mura / Il mio amore non ti lascerà mai”. La musica del Boss è un rito collettivo purificatore, lavacro emozionale e materializzazione dei valori americani della working class. Tra i quali c’è anche la possibilità della seconda occasione. È la sottile presa di posizione politica di Demme: la differenza non è tra destra e sinistra (Ricki ha votato Bush), ma tra chi balla sulle note d’un brano che sintetizza il vitalismo della cultura statunitense (cui appartiene lo spirito democratico di Nata ieri di Cukor, che Demme fa vedere a un certo punto), e chi resta compunto e insensibile al proprio tavolo. Non capendo che, come si diceva in Scarpette rosse, “Conta solo la musica”.