The tree of life: stasera su Rai 5 il cinema di poesia di Terrence Malick

Alle 21.15 il film con Brad Pitt e Sean Penn: un’opera sperimentale e ambiziosa, che conferma l’ineguagliabile talento visivo del regista texano. Il suo cinema suona come una bellissima sinfonia d’inquadrature. Ma il rischio dell’esercizio di stile è dietro l’angolo.

The tree of life Malick dirige Pitt e Penn

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The tree of life è la storia di una famiglia del Midwest negli anni Cinquanta, vista attraverso gli occhi del figlio maggiore Jack (Sean Penn) ormai cresciuto, professionista di successo che torna con la memoria all’infanzia coi genitori (Brad Pitt e Jessica Chastain). Il rapporto conflittuale col padre, la morte di un fratello: una storia di impalpabili tensioni incastonata in una cornice spiazzante che parte, letteralmente, dall’origine del mondo e giunge a un finale spiritualeggiante in cui Jack adulto reincontra (o immagina di farlo?) la famiglia in un luogo privo di coordinate fisiche.

Malick si spinge oltre i limiti dei suoi precedenti film e tende ambiziosamente l’arco della storia sino a spezzarlo. Gli eventi non sono disposti in una sequenza logica, ma semplicemente accumulati e affidati all’istinto narrativo dello spettatore, che tende naturalmente a riorganizzarli in una forma coerente. Così si srotolano momenti appartenenti all’oggi, all’origine del tempo, forse persino momenti al di fuori del tempo, e il racconto va avanti trainato dalla pura forza delle inquadrature, di una bellezza abbacinante.

Malick si comporta come un poeta che si disinteressa del significato e tratta la parola alla stregua d’un oggetto materiale, di cui importa solo il suono e il modo in cui si combina musicalmente con gli altri segni per formare il verso. Le immagini diventano sculture visive, segni multisensoriali da guardare, ascoltare e persino toccare, in cui si percepisce la consistenza insieme rinfrancante e minacciosa degli elementi naturali. Il montaggio procede per allusioni, a comporre una sinfonia d’inquadrature non legate da una rigida struttura di causa ed effetto. Così, allentata la consequenzialità dei blocchi narrativi, lo spettatore è libero di immergersi in un racconto da seguire non con la testa ma con tutto il corpo, in un’esperienza estetica eminentemente fisica e non intellettuale.

Il meccanismo è disorientante, ma convincente nei momenti in cui si percepisce un tessuto di fatti reali sotto la superficie elusiva dell’armonia visiva. Nonostante le reticenze, il ritratto intimo di una famiglia americana degli anni Cinquanta emerge nitido, grazie alle notazioni esemplate sulla vita di Malick stesso e di milioni di americani nati e cresciuti in quella provincia di spazi interminabili, con villette a due piani e la natura come scoperta del meraviglioso a portata di mano.

Non così accade nella parte contemporanea, che raffigura sbrigativamente un mondo grigio di grattacieli e inumanità, nel quale Penn è preda d’una insoddisfazione immutabile. Le inquadrature diventano ieratiche e sublimi, e raccontano un’inquietudine indefinita e di maniera, cui l’attore presta una maschera sempre uguale, atteggiata a simbolo d’uno sconfinato dolore del mondo. Nel quale affiora il limite principale di questo cinema che prende molto sul serio i suoi temi universali: l’estetizzazione, il gusto per la bella immagine fine a se stessa. Motivo per cui, pur partendo da presupposti diversissimi, The tree of life finisce, con le sue inquadrature levigatissime, l’uso sfibrante del controluce, i vestiti dalle tonalità pastello e le case modello “Architectural Digest”, per assomigliare in modo preoccupante alla pubblicità e alla fotografia di moda.
https://youtu.be/WXRYA1dxP_0