Foxcatcher: un duro apologo sul lato oscuro del sogno americano

Bennett Miller racconta la storia vera di due fratelli campioni olimpici di lotta libera, assoldati da un eccentrico miliardario. Un complesso triangolo di caratteri, che si tende fino alla rottura. Un film dolente sulla seduzione del potere e l’ossessione del successo. Ammirevole il terzetto di attori.

Foxcatcher sogno americano secondo Bennett Miller

INTERAZIONI: 8

All’inizio di Foxcatcher Mark Schultz (Channing Tatum), medaglia d’oro di lotta libera alle Olimpiadi del 1984, si sta allenando in palestra con un pupazzo: ma il vero manichino è lui, insicuro campione-fantoccio dipendente dal fratello maggiore Dave (Mark Ruffalo), anch’egli olimpionico di lotta, che gli fa da allenatore e padre. L’occasione per emanciparsi gliela offre John du Pont (Steve Carell), rampollo di una dinastia che ha fatto i soldi con la polvere da sparo, che lo chiama per aiutarlo a formare una squadra di lotta libera in vista delle Olimpiadi di Seul. Mark vede in lui un nuovo mentore: ma John ha i suoi demoni, bisognoso di affrancarsi dall’anaffettiva madre (Vanessa Redgrave), per la quale l’eccentrico entusiasmo per la lotta libera del figlio è un segno di irreparabile immaturità.

Nonostante Mark vinca i mondiali del 1987, l’alleanza con John non produce i frutti sperati e diventa necessario chiamare in aiuto il più affidabile Dave. Il triangolo è emotivamente complesso: Mark avverte il peso del fratello, per cui prova sentimenti profondi ma ambivalenti, e John soccombe psicologicamente al nuovo arrivato, che possiede le attitudini caratteriali che lui confusamente cerca nella lotta, la passione per le armi e la cocaina. Il rapporto tra i tre, complice la sconfitta di Mark alle Olimpiadi del 1988, si tende sino a spezzarsi tragicamente.

Come per i precedenti Truman Capote e L’arte di vincere, il regista Bennett Miller, vincitore del premio per la miglior regia a Cannes 2014, ha portato al cinema, adattandola, una storia vera che ha la cupa essenzialità di un racconto alla Eastwood. Foxcatcher ha un tono laconico, in cui i personaggi dicono più cose attraverso il disagio della loro fisicità (la sinistra catatonia espressiva di John; le movenze sgraziate di Mark, come si sentisse sempre fuori posto) che con le parole. Il film è ritmato da silenzi e vuoti, con una lentezza volutamente lontana dai modelli narrativi in voga a Hollywood. Inedito è lo sguardo sulla lotta: il trionfo ai mondiali è descritto senza enfasi, mentre più attenzione è rivolta agli allenamenti, spia delle dinamiche emotive tra i personaggi (i fratelli che si sfidano picchiandosi e abbracciandosi allo stesso tempo).

Foxcatcher, sin dalle onnipresenti bandiere a stelle e strisce esibite dal patriota John nella sua tenuta, è un apologo sulla fragilità del sogno americano. Un racconto dell’insidia corruttrice della ricchezza, l’intima debolezza del potere, l’ossessione competitiva, che si concede ironie taglienti, come This land is your land che suona mentre John e Mark sniffano cocaina. Miller fa tesoro della lezione demistificante della New Hollywood degli anni Settanta, filtrata attraverso una sobria classicità di sguardo (alla Eastwood, appunto), però stenta a trovare una voce spiccatamente personale, quasi fosse preoccupato di dover restare nei binari di un riconoscibile cinema d’autore. Ma è magnifico nella direzione degli attori: il sorprendente (per sfumature) Tatum, l’inquietante Carell, irriconoscibile per il trucco e il ruolo lontano dalle usuali interpretazioni brillanti, la solidità di Ruffalo, che incarna gli ideali valori americani destinati a soccombere in questa fosca storia di fallimenti.