National Gallery: l’11 marzo al cinema c’è il bellissimo documentario di Wiseman

Per un giorno verrà proiettato nelle sale l'ultimo capolavoro del grande documentarista statunitense, recente Leone d'oro alla carriera. Il composito racconto del prestigioso museo londinese costituisce un appuntamento imperdibile per chi non conosce questo sorprendente narratore della realtà.

National Gallery di Wiseman 11 marzo al cinema

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Il Leone d’oro alla carriera ricevuto nel 2014 sta facendo finalmente riemergere il lavoro del grande documentarista americano Frederick Wiseman – 85 anni e più di 40 film realizzati – dalle sale d’essai nelle quali è stato a lungo confinato. Pochi giorni fa, grazie al meritorio impegno congiunto dell’ArciMovie di Napoli, la Parallelo 41 produzioni diretta da Antonella Di Nocera e la Cineteca di Bologna, l’ancora attivissimo regista è stato ospite in Italia per una rassegna a lui dedicata. È stato possibile vedere i suoi primi lungometraggi, Titicut Follies (1967) sui manicomi criminali, High school (1968) sull’istituzione educativa, la burocrazia sanitaria di Welfare (1975), e soprattutto c’è stata l’anteprima del suo ultimo documentario, National Gallery (2014). Un lavoro dedicato al museo londinese che sarà eccezionalmente proiettato nelle sale italiane l’11 marzo, distribuito da Nexo Digital e I Wonder Pictures (qui l’elenco dei cinema nei quali è in programmazione).

È un appuntamento da non perdere: tre densissime ore – partendo da 170 ore di girato – che offrono insieme un ritratto sfaccettato dell’istituzione museale e un’esposizione esaustiva del metodo operativo di Wiseman. Il quale, come ha spiegato più volte, ha un approccio alla narrazione più da romanziere che da cineasta. Quando gira, cioè – una fase che dura solitamente da uno a tre mesi –, non sposa idee preconcette, ma accumula un ingente materiale che solo successivamente, in fase di montaggio, acquista una struttura definita, dalla quale affiora il punto di vista dell’autore. Che si modella insieme ai fatti e non è frutto di tesi pregiudiziali. Proprio come il romanziere, che non conosce in anticipo carattere e destino dei personaggi, ma li costruisce, e in parte scopre, nell’atto stesso di scrivere.

Accade così anche in National Gallery, molto diverso dai tradizionali documentari didattici sull’arte: è piuttosto un’indagine che, come sempre in Wiseman, parte dall’istituzione, della quale racconta aspetti operativi e politiche culturali. Assistiamo a una riunione in cui si parla degli ingenti tagli al budget della pinacoteca; o alla serrata discussione tra il direttore, legato a un’idea nobilmente conservatrice e umanistica della galleria e un’assistente incline a strategie di marketing e comunicazione più disinvolte. Posizioni che hanno a che vedere con la relazione tra interno ed esterno, ossia il ruolo e la dialettica che un’organizzazione come il museo – inevitabilmente percepito come conservatore – intrattiene con il contesto sociale nel quale è immerso. In tal senso la prospettiva di Wiseman è sottilmente problematica, poiché la città intorno alla pinacoteca è sostanzialmente assente e la galleria viene raccontata tutta dentro le mura, come fosse separata, se non addirittura accerchiata, dalla realtà circostante.

Grande rilievo è dato naturalmente al discorso sulle opere d’arte, intese prima di tutto nella loro concretezza fisica. Guide, restauratori e allestitori scompongono idealmente i quadri per raccontare i materiali di cui sono fatti – colori, supporto, cornici –, il modo di esporli – con quale illuminazione, a che altezza –, le strategie di conservazione. Sono dati formali ma non esteriori, attraverso i quali emergono i significati sociali e culturali soggiacenti. Il discorso apparentemente secondario sull’altezza a cui appendere un quadro è lo spunto per una complessa disamina sulla posizione ideale dell’osservatore immaginata dal pittore al momento della realizzazione dell’opera, fondamentale per comprenderne le scelte di angolazione e prospettiva. Così la storia dell’arte, che apparentemente non costituisce l’obiettivo primario di Wiseman, rientra nella sua analisi in una chiave indiretta e, per questo, persino più efficace di un’esplicita “lezione” sulla pittura.

National Gallery dà molto spazio al tema della conservazione: il lavoro certosino e filologico dei restauratori che, grazie anche all’apporto delle tecnologie, intervengono sui quadri per tutelarli e restituirli all’originaria bellezza. Il tempo si deposita sui colori, sulla superficie delle tele, corrodendole, guastandole senza sosta: così il museo assume i contorni di un baluardo – fisico e culturale – contro questo inarrestabile processo di erosione. Le opere che si offrono allo sguardo dei visitatori contengono un altro volto, segreto e non percepibile, legato all’enorme lavorio del restauro, impegnato a preservarne bellezza, leggibilità, significati.

È una prospettiva affascinante, resa con grande evidenza nella sequenza in cui un restauratore racconta le vicende relative a una tela di grandi dimensioni di Rembrandt che, come svelato dall’analisi a infrarossi, cela dietro di sé una precedente versione dello stesso quadro, quello che tecnicamente si chiama “pentimento”. Un’opera invisibile, nascosta sotto la versione ufficiale, di cui costituisce un elemento indispensabile per comprenderne la storia.

Questo duplice quadro è una metafora perfetta del lavoro cinematografico di Wiseman, che costruisce narrazioni a più strati, dove l’interazione che sussiste tra i vari piani è determinante per offrire un ritratto veritiero della complessità del reale. Ma, appunto, non necessariamente tutti i livelli sono immediatamente percepibili: e l’intervento del regista consiste proprio nel riuscire a dare spazio a ognuno di essi (che è anche la ragione per cui i suoi documentari hanno spesso una durata ragguardevole).

In questa dinamica tra visibile e invisibile il primo a non mostrarsi è proprio il regista, che non entra mai in scena e non commenta nemmeno con la voce fuoricampo. Ciò non comporta alcuna forma di neutralità o presunta oggettività dello sguardo, cui l’autore è il primo a non credere. Wiseman non cerca un’impossibile realtà trasparente, ma vuole sgombrare il campo da pregiudizi e unilateralismi ideologici da opera a tesi, fiducioso nella capacità dello spettatore di costruire, all’interno del tessuto narrativo, un proprio punto di vista. L’intelligenza di chi osserva – un quadro o un film, ma anche l’autore dietro la macchina da presa – è il presupposto da cui parte il regista, che non indirizza il suo discorso a uno spettatore passivo, ma a menti vigili e analitiche desiderose di misurarsi con la realtà, e non di trovarla già apparecchiata e preordinata.

Proprio come il museo, i documentari di Wiseman contengono molte sale: l’autore è l’architetto che dispone l’organizzazione dello spazio, ma lo spettatore è il visitatore lasciato libero di scegliere la direzione più consona alla propria intelligenza, cultura e sensibilità. Possiamo solo invitare tutti a inoltrarsi lungo il sentiero aperto tracciato da National Gallery, per costruire il proprio itinerario personale attraverso questa vertiginosa avventura dello sguardo.