Agli Oscar trionfa Birdman: Hollywood celebra la sua immagine tradizionale

Grande affermazione personale di Iñárritu, che vince il premio per film, regia e sceneggiatura originale. Julianne Moore e Eddie Redmayne trionfano tra gli attori. L’italia c’è con Milena Canonero, al quarto Oscar per i costumi.

Agli Oscar trionfa Birdman di Alejandro Iñárritu

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Un’edizione degli Oscar “hollywoodianamente corretta” questa del 2015, che ha premiato film, attori e storie in linea con la tradizione. Sulla carta i due contendenti più accreditati erano Birdman del messicano Alejandro González Iñárritu e Boyhood di Richard Linklater. Entrambi erano accreditati della patente di “film d’autore”: il primo in quanto esasperato esercizio di stile costruito su un lunghissimo (e prodigioso) piano sequenza, con al centro i dubbi professionali ed esistenziali di un vecchio attore di successo che torna a teatro per rilanciare carriera e vita; Boyhood invece è un inedito esperimento, perché il regista ha realizzato la sua storia di finzione filmando attraverso dodici anni i suoi veri attori, seguendo realmente la crescita e la trasformazione di ognuno.

Alla fine ha prevalso Birdman, con quattro statuette: Iñárritu ha vinto per il miglior film, regia e sceneggiatura originale (tre premi andati direttamente a lui, cosa successa a pochissimi nella storia degli Oscar, tra questi il Billy Wilder de L’appartamento), a cui va aggiunto il premio per la fotografia a Emmanuel Lubezki, alla seconda affermazione consecutiva (l’anno scorso aveva vinto per Gravity). Probabilmente i giurati dell’Academy, tutti addetti ai lavori, si sono riconosciuti in questa storia che, seppur sperimentale sotto il profilo formale, racconta i molto usuali dilemmi professionali e umani degli artisti, con il protagonista che è un divo di ritorno, nella finzione come nella realtà (il ruolo è tagliato su misura sulla vicenda personale dell’interprete Michael Keaton) mentre la spalla Edward Norton incarna il classico binomio ad alta temperatura – e difficile gestione – di genio e sregolatezza.
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All’insegna della consuetudine sono state le affermazioni dei migliori attori: lo Stephen Hawking di Eddie Redmayne ne La teoria del tutto e la malata terminale di Julianne Moore in Still Alice sono in linea con quello che disse una volta Marlene Dietrich, che i giurati dell’Academy premiano i ruoli e non gli attori. E le due malattie messe in scena – magnificamente – dai due vincitori sono ricche anche di emozioni ricattatorie che chiaramente spingono ancora di più a darle un premio. Ma sono riconoscimenti ampiamente meritati, in particolare la Moore che era alla quinta nomination.

Stesso discorso per gli attori non protagonisti: Patricia Arquette ha portato a casa l’unica statuetta vinta da Boyhood, con un ruolo di madre amorevole, fallibile ma sempre presente, in cui è confortevole riconoscersi (ma l’attrice ha spiazzato con un discorso incentrato sulla parità di diritti e retribuzione per le donne, molto apprezzato sui social). Il premio a J.K. Simmons, l’insegnante di musica sadico di Whiplash si lega idealmente al premio che vinse trent’anni fa Louis Gossett jr. con lo stesso ruolo, in quel caso nella veste del sergente “duro ma che ti insegna a vivere” di Ufficiale e gentiluomo. Un personaggio, quello del persecutore, che evidentemente piace ai giurati dell’Academy. In generale, ho trovato ampiamente sopravvalutato il pessimo Whiplash (domani la recensione su “Alta Fedeltà” spiegherà perché), film indipendente lanciato dal Sundance che ha portato a casa anche le statuette per montaggio e montaggio sonoro.

L’oscar al film straniero è andato all’asso pigliatutto della stagione, Ida di Paweł Pawlikowski che, con l’esasperato manierismo della sua fotografia ricercata, corrisponde esattamente a quello che l’Academy pensa essere un film d’autore (la stessa cosa successe l’anno scorso con La grande bellezza di Sorrentino), e così è stato relegato in secondo piano il più politico e incisivo Timbuktu di Sissako.

Passiamo alle delusioni: meritava certamente di più il raffinato ed elusivo gioco di specchi temporale di Grand Budapest Hotel, il film di quello che è probabilmente il migliore regista americano degli ultimi vent’anni, Wes Anderson. Ha vinto comunque quattro statuette, ma tra le categorie “tecniche”, scenografia, colonna sonora, trucco e costumi, dove ha trionfato Milena Canonero, unica nota italiana in questa edizione degli Oscar, giunta alla quarta statuetta di una luminosa carriera che l’ha vista affermarsi, la prima volta, con Barry Lyndon di Kubrick.

Delusione attesa quella di American Sniper di Eastwood, sei nomination e un solo Oscar vinto (miglior sonoro): un grande successo anche al botteghino, ma un film che ha scatenato moltissime polemiche di taglio politico, sul suo presunto tono reazionario e forse per questo è stato preferibile lasciarlo dietro le quinte. Da segnalare che il suo protagonista, il sempre più convincente Bradley Cooper, è ancora in attesa della vittoria dopo la terza nomination consecutiva.

L’ultima notazione sulla gaffe della serata, che ha scatenato l’indignazione dei social in Italia: durante il consueto “memorial” degli artisti scomparsi durante l’anno, è stata ricordata Virna Lisi ma non Francesco Rosi. Ma la prima ha avuto una stagione hollywoodiana, mentre il secondo è un rappresentante di un cinema d’autore europeo che agli americani, in generale, interessa poco. Nessuna sopresa, dunque.

Tutti i premi
Film: Birdman
Regia: Alejandro González Iñárritu (Birdman)
Attore: Eddie Redmayne (La teoria del tutto)
Attrice: Julianne Moore (Still Alice)
Attore non protagonista: J.K. Simmons (Whiplash)
Attrice non protagonista: Patricia Arquette (Boyhood)
Sceneggiatura originale: Alejandro G. Iñárritu, Nicolás Giacobone, Alexander Dinelaris, Jr., Armando Bo (Birdman)
Sceneggiatura non originale: Graham Moore (The Imitation Game)
Film straniero: Ida di Paweł Pawlikowski (Polonia)
Film d’animazione: Big Hero 6, Don Hall, Chris Williams e Roy Conli
Fotografia: Emmanuel Lubezki (Birdman)
Scenografia: Adam Stockhausen e Anna Pinnock (Grand Budapest Hotel)
Montaggio: Tom Cross (Whiplash)
Colonna sonora: Alexandre Desplat (Grand Budapest Hotel)
Canzone: Glory (Selma)
Effetti speciali: Paul Franklin, Andrew Lockley, Ian Hunter and Scott Fisher (Interstellar)
Sonoro: Alan Robert Murray and Bub Asman (American Sniper)
Montaggio sonoro: Craig Mann, Ben Wilkins and Thomas Curley (Whiplash)
Costumi: Milena Canonero (Grand Budapest Hotel)
Trucco: Frances Hannon and Mark Coulier (Grand Budapest Hotel)
Documentario: CitizenFour, Laura Poitras, Mathilde Bonnefoy e Dirk Wilutzky
Corto documentario: Crisis Hotline: Veterans Press 1, Ellen Goosenberg Kent e Dana Perry
Corto: The Phone Call, Mat Kirkby e James Lucas
Corto d’animazione: Feast, Patrick Osborne e Kristina Reed