Si accettano miracoli: Alessandro Siani ci racconta una favola

Dopo Il principe abusivo, l’attore e regista napoletano sbanca ancora il botteghino con il suo nuovo film, la storia di un paesino del sud Italia pieno di italiani brava gente. Una fiaba zuccherosa e buonista, lontanissima dalla realtà: il pubblico l’ha premiata proprio per questo.

Si accettano miracoli nuovo film di Alessandro Siani

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Cinque milioni di euro incassati nel primo weekend: ecco il vero prodigio di Si accettano miracoli, il nuovo film diretto e interpretato da Alessandro Siani. Di fronte a numeri simili le valutazioni critiche ammutoliscono: e invece di stroncare – operazione facilissima, vista l’inconsistenza della favoletta imbastita dal comico napoletano – bisognerebbe capire le ragioni del successo. Senza limitarsi a puntare il dito accusatore sui gusti faciloni del pubblico, perché è lo stesso che nei medesimi giorni ha premiato con quattro milioni al botteghino il duro American Sniper di Clint Eastwood.

Quali corde tocca questo brutto film, funestato pure da una zuccherosa colonna sonora disneyana e una fotografia caramellata? Partiamo dalla storia: Fulvio (Siani), rampante tagliatore di teste di un’azienda napoletana, viene a sua volta licenziato. Reagisce scompostamente e i servizi sociali lo assegnano alla tutela del fratello Don Germano (Fabio De Luigi), parroco di uno sperduto borgo del Sud Italia. La sua piccola chiesa è di fronte a problemi di liquidità e l’attività di doposcuola per i bambini è a rischio. Da scaltro esperto di marketing Fulvio si inventa il miracolo, simulando il pianto della statua del patrono San Tommaso. L’economia del paesino risorge, il miracolo attrae pellegrini da ogni dove: ma il Vaticano vuole vederci chiaro.

Il film è chiaramente una favola: dopo il prologo “realistico” in città, ambientato nei grattacieli del Centro Direzionale di Napoli che nelle intenzioni vorrebbero fare tanto City londinese, Si accettano miracoli si immerge nell’anacronistica Rocca di Sotto, nella quale tutti vestono come contadini dell’anteguerra, con baschetto, camiciola bianca e bretelle, le donne lavano i panni in vasche alimentate da fresca acqua di fonte e le insegne dei negozi sono dipinte a mano.

Ecco il primo elemento che probabilmente è piaciuto: il tono idilliaco di un luogo fuori dello spazio e del tempo, quando gli italiani erano ancora brava gente, creduloni ma sinceri, e il senso della comunità era saldo. Un paese in bianco e nero mai veramente esistito, eppure appartenente alla memoria collettiva, sintesi immaginaria tra vecchie fotografie di antenati seri e dignitosi e film come Pane, amore e fantasia, che hanno scolpito il patrimonio sentimentale degli italiani.

Il pubblico si è fatto cullare anche dal vago sentore di umanesimo che – se ne sarà accorto Siani? – cita un po’ troppo Chaplin: gli insopportabili bambini vestiti come il monello Jackie Coogan, l’amore per Chiara (Ana Caterina Morariu), la ragazza cieca appassionata di fiori, impudente richiamo a Luci della città, l’anticapitalismo all’acqua di rose che alla fredda metropoli preferisce i tempi premoderni del paesello senza marchingegni tecnologici.

Si accettano miracoli è un teatrino buonista animato da figurine da presepe: Siani, cieco come Chiara di fronte alle immodificabili brutture della realtà, preferisce rifugiarsi nell’ottimismo della fiaba leggera e disimpegnata. Gli spettatori lo seguono senza nemmeno bisogno di ridere – soporiferi i monologhi comici dell’attore-regista – e ritrovano una semplicità confortante di sentimenti e valori in cui rispecchiarsi, dimentichi per due ore del duro presente che li attende oltre lo schermo. Il cinema, da sempre, è anche questo.