Il sale della terra: in viaggio con Wenders nella fotografia di Salgado

In una lunga intervista il grande fotografo brasiliano racconta quarant’anni passati a documentare conflitti, migrazioni, carestie. Fino al recente impegno ecologista. Affascinante, ma lo sguardo di Wenders resta in superficie.

Il sale della terra Wenders racconta Salgado

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Il sale della terra è il documentario dedicato al grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado da Wim Wenders e dal figlio Juliano Ribeiro Salgado. Una lunga intervista realizzata in una sorta di “camera oscura”, come l’ha definita il regista tedesco, che riprende Salgado mentre guarda contemporaneamente verso lo spettatore e, grazie a uno schermo semitrasparente, verso le sue fotografie. Salgado sembra emergere dalle foto, il volto si mescola alle immagini, come se fossero fatti della stessa materia. E Salgado è davvero una sola cosa con i suoi scatti, per l’adesione e l’abnegazione totale, fisica e mentale, che ha costantemente profuso nel suo mestiere.

Quarant’anni di viaggi estenuanti passati a documentare conflitti, migrazioni, carestie, la fatica del lavoro. Le sue immagini colpiscono per la grandiosità della messa in scena, per la forza ricca di contrasti del suo smagliante bianco e nero. I cercatori d’oro in Brasile e i pompieri all’opera sui pozzi di petrolio in fiamme in Kuwait paiono figure di un inferno dantesco; gli affamati nel deserto del Sahel e le popolazioni in fuga dalla guerra in Rwanda sono scolpiti come sculture, quasi fossero fuori del tempo.

Salgado racconta il suo dolore di fronte a esperienze estreme nelle quali si è immerso completamente, rischiando di smarrirsi in una violenza restituita senza filtri di sorta. Dopo gli anni Novanta delle guerre civili, infatti, Salgado perse completamente fiducia, scosso dall’“orrore della nostra specie”, dedita solo a brutalità e sopraffazioni.

La risposta è stata Genesi, un progetto fotografico sulla natura. Fauna e flora selvaggia, territori incontaminati, il popolo degli Zo’é che vive come all’alba del mondo: un universo raccontato non con la malinconica intenzione di costruire un catalogo di ciò che sta scomparendo ma per testimoniare la forza e la bellezza intrinseca del creato. Alla fotografia si accosta l’impegno per l’ambiente di Salgado: un progetto di riforestazione condotto nel ranch di famiglia nella natia regione brasiliana di Aimorés, realizzato piantando due milioni di alberi, per farlo tornare a risplendere della sua bellezza originaria.

La storia di Salgado è affascinante, come le sue fotografie che descrivono un mondo meraviglioso e terribile, meraviglioso proprio perché terribile. Ma Il sale della terra non approfondisce questo nodo problematico. Spesso il fotografo brasiliano è stato criticato per il rischio di estetismo connaturato alle sue immagini: belle di una bellezza “inautentica”, come ha detto Susan Sontag, troppo spettacolari per essere credibili. La resa quasi monumentale di soggetti ritratti in situazioni dolorose rischia di renderli irreali, o peggio, di trasformare la loro sofferenza in qualcosa di astorico e immodificabile, come se appartenesse al ciclo della natura e non alla vicenda – e alle colpe – degli uomini.

Nel documentario siamo trasportati nell’universo sublime di Salgado, rinfrancati dal lieto fine dell’impegno ecologista, sinceramente ammirevole. Ma siamo lasciati soli di fronte alla fascinazione di immagini che mescolano ambiguamente dolore e spettacolarizzazione del dolore. Dal regista di Nel corso del tempo, sempre attento al significato culturale e ideologico delle immagini, ci saremmo aspettati maggiore lucidità interpretativa. Ma ci sarebbe voluto il Wenders degli anni Settanta.