Django Unchained, in prima visione tv il west secondo Tarantino

Stasera su Cielo tv l’ultimo film del celebre regista americano, che rilegge a modo suo il western. Grandi dialoghi serviti da grandi attori, da Leonardo Di Caprio a Christoph Waltz. E grandi difetti, tipici del Tarantino recente.

Django Unchained prima tv il west secondo Tarantino

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Quentin Tarantino è il più influente regista mondiale degli ultimi vent’anni. Ha imposto uno stile fatto di dialoghi scintillanti e un ritmo che accelera e rallenta a suo piacimento. In Pulp Fiction ha sperimentato una frantumazione della linea narrativa che è diventata la regola dello storytelling al cinema e in tv (si pensi a Lost).

La cosa incredibile è che le sue innumerevoli innovazioni non le ha create dal nulla, ma le ha tratte dal cinema precedente, dando dignità a materiali bassi provenienti da b-movies, spaghetti western, film di kung-fu, exploitation, sexploitation alla Russ Meyer. Tarantino ha preso scarti e li ha trasformati in arte. Un enorme frullato nel quale i contenuti originari sono trasfusi in un racconto completamente nuovo, che rende non identificabili i singoli elementi utilizzati.

Ma il frullato ormai ha un cattivo sapore. A partire da Kill Bill l’inventiva spesso latita, i materiali impiegati diventano riconoscibili, le citazioni sono dirette, non mirano alla costruzione del racconto ma al divertimento che dà il riconoscerne la provenienza. La parodia e il gusto dello sberleffo prendono il sopravvento. Ma a furia di prendere in giro ogni cosa, Tarantino sembra diventato la parodia di se stesso.

Sono difetti visibili anche in Django Unchained, che racconta, negli anni dello schiavismo che precedono la guerra civile, la storia di due cacciatori di taglie, il tedesco dottor Schultz (un grande Christoph Waltz) e l’ex schiavo di colore Django (Jamie Foxx), il cui obiettivo è ritrovare la moglie, venduta al sadico Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), che i due cercano di raggirare.

Qualcuno ha parlato di coraggiosa rilettura di una pagina controversa della storia americana, prendendo sul serio le dichiarazioni del regista al proposito. Ma a Tarantino la storia interessa poco, lo ha chiaramente dimostrato Bastardi senza gloria, l’altro suo film storico (?) ambientato negli anni del nazismo, in cui Hitler muore nell’incendio di un cinema. Tarantino manipola la storia allo stesso modo dei generi cinematografici: ogni cosa nelle sue mani diventa un materiale funzionale alla logica narrativa e al divertimento. È puro cinema, quando è al suo meglio; ed è solo cinema, quando è al suo peggio.

E in Django Unchained prevale talvolta il peggio. Il racconto è a tratti magnifico, pochi autori sanno costruire una tensione così forte a partire dai dialoghi, serviti da attori magnifici (il nero schiavista di Samuel L. Jackson è inquietante). Però ci sono troppi sberleffi, ammiccamenti, citazioni gratuite.

Anche il più sfegatato ammiratore non potrà non ammettere la grave caduta di tono dell’interminabile finale: in cui il vendicatore senza macchia e senza paura diventa infrangibile, i duelli sono coreografati come in un film di Hong Kong e la quantità di sangue supera il sopportabile. E risulta poco tollerabile il tono di sghignazzo generale, viste le massicce dosi di violenza: un macabro senso dell’ironia che apparenta il film al peggiore cinema reazionario dello Schwarzenegger anni Ottanta. Sarebbe grave, se da Tarantino ci attendessimo ancora qualcosa. Beninteso, essendo un genio, al prossimo film ci smentirà.