Memoria: Se questo è un uomo. La Scala della Morte


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Auschwitz
Auschwitz

Sono stato ad Auschwitz 25 anni orsono. Ricordo come se fosse stamani. Ma non i forni crematori e le camera a gas, non le baracche, non la cella del martire Kolbe. No, del campo di concentramento polacco ricordo gli enormi stanzoni dove sono custoditi – protetti da un vetro – gli oggetti sottratti ai deportati: centinaia di migliaia di occhiali, ed in un altro stanzone centinaia di migliaia di scarpe, ed nello stanzone accanto centinaia di migliaia di penne, anelli, tabacchiere.

L’orrore assume forme strade anche quelle di un enorme deposito con la puzza asfissiante della morte. Credo che tutti, almeno una volta nella vita, debbano andare in pellegrinaggio in un campo di concentramento. Perché chi prova a dimenticare deve esser maledetto come urla Levi nel suo tragico diario di reduce “Se questo è un uomo”.

 

Grazia Di Veroli ha percorso in un libro questo percorso nell’orrore. O meglio ne ha salito le scale. “La scala della Morte – Mario Limetani da Venezia a Roma , Via Mauthausen” pubblicato proprio in occasione del 70° anniversario della deportazione romana del 4 gennaio dalla Marlin Editore è la  storia di Mario Limentani deportato a Mauthausen.

Rastrellato nelle vie di Roma nella seconda metà del dicembre 1943, mentre la resistenza romana è attiva contro l’occupante tedesco, Limentani viene portato in questura ed è riconosciuto come ebreo. Inizia da lì il suo calvario. A differenza degli altri ebrei catturati dopo la razzia del 16 ottobre 1943, avrà come prima e unica destinazione il Lager di Mauthausen e i suoi sottocampi, dove rimane prigioniero per circa un anno e mezzo. Il primo impatto di Limentani con Mauthausen sono le percosse, perché ebreo; subito dopo, la babele delle lingue parlate nel campo, la fame e, soprattutto, il ricordo indelebile della “scala della morte”: 186 gradini da salire giorno dopo giorno, ora dopo ora, con un masso di granito sulle spalle.

Una pena questa che Dante nella sua Commedia assegna ai superbi nella prima cornice del Purgatorio e che i deportati in questo campo madre, messo un po’ da parte nell’immaginario comune della Shoa, che va subito ad Auschwitz, hanno dovuto scontare pregando il loro Dio, sacrificandosi per l’idea di “percorrere una strada comune: quella della libertà indispensabile di tutti i popoli, del rispetto reciproco, della collaborazione nella grande opera di costruzione di un mondo nuovo, libero, giusto per tutti”( dal giuramento di Mauthausen). I deportati che entravano in Mauthausen impattavano per prima cosa il “Muro del pianto”, sarcastico richiamo a quello sacro di Gerusalemme, dove i prigionieri subivano le prime violenze dalle SS.

Era situato immediatamente a destra di chi entrava, oggi ricoperto di lapidi commemorative. Qui i deportati appena arrivati subivano le prime bastonature se si opponevano all’espropriazione di tutti i loro beni. Orologi, anelli, valute e preziosi di ogni tipo dovevano essere gettati in una buca indicata loro dalle SS.