Lo so, la battuta è scontata. Ma a vedere la programmazione di stasera di Italia 1, che in prima serata alle 21.20 propone The Martian – Sopravvissuto, è impossibile non pensare alla lezione che ci dà Matt Damon in questo film del 2015 diretto da Ridley Scott. Perché se ce la fa lui a scamparla dopo essere stato abbandonato completamente da solo per quasi due anni su un pianeta inospitale, privo di aria e acqua, allora non dovrebbe essere impresa troppo difficile per noi cavarcela qualche giorno a casa, con tutti i comfort, lo smart working e un’offerta streaming sufficiente per i prossimi dieci anni.
Al confronto di Marte, la vita ai tempi del Coronavirus non sembra una sfida insormontabile. Divertente poi – giuro che poi comincio davvero a parlare del film – che in The Martian Matt Damon, che qui si chiama Mark Watney, abbia l’abitudine di registrare videomessaggi, con la classica inquadratura frontale. Praticamente identica alla nostra quando, per sconfiggere la solitudine di queste giornate, parliamo attraverso la videocamera del nostro laptop per comunicare con l’esterno.
Che poi questo approccio ridanciano a The Martian non deriva solo dalla voglia di alleggerire questi nostri momenti emotivamente non semplicissimi. Dipende pure dal tono del film che, nonostante le drammatiche premesse, è un raro caso di fantascienza distopica che si ribalta nel suo esatto contrario. Perché questo, grazie anche al one man show di quell’attore solidissimo e terribilmente sottovalutato che è Matt Damon, è un film che comunica un ottimismo contagioso. E ha senso che ai Golden Globes, dove si fa distinzione tra drammi e commedie, abbia concorso nella categoria commedia, vincendo sia il premio per il miglior film che per il migliore attore (poi ci sono state anche 7 nomination agli Oscar, senza statuette).
Grazie alla virilità tranquilla ma risoluta di Matt Damon (per apprezzare queste qualità si veda anche l’ultimo Le Mans ’66) riesce a risultarci simpatico quello che a prima vista potrebbe sembrare un nerd saccente. Invece Watney è l’uomo ideale, che contempera in sé ogni possibile qualità: leonardesco per la vastità della sua cultura scientifica (è un botanico ma in realtà è un tuttologo), prometeico per la capacità di “creare” dal nulla l’acqua o il fuoco, con una ingegnosità alla McGyver – il protagonista di un telefilm anni Ottanta cui bastavano un coltellino svizzero, un pezzo di nastro adesivo e una leva per sollevare il mondo – e lo spirito avventuroso del pioniere che conquista la frontiera. E Ridley Scott lo sa che sta girando un western, basta vedere le prime inquadrature, quella sembra la Monument Valley di John Ford.
L’astronauta Watney è come Adamo (“dovunque vado, sono il primo uomo”, dice), è il sopravvissuto Robinson Crusoe che deve impiantare da zero un’intera cultura (non manca di inventarsi un alfabeto per comunicare con la Terra), è la quintessenza dell’ottimismo americano, più colono che cowboy, perché la sua arma non sta nella forza ma nell’intelligenza industriosa. È più di un singolo, è la sintesi di un intero popolo, di cui da solo possiede l’intero sapere. Talmente completo da bastare a sé stesso. E infatti in The Martian non ci sono storie d’amore o languori sentimentali per la donna lasciata a casa.
Poi, ovviamente, non è proprio vero che possa bastare integralmente a sé stesso. Per tornare a casa c’è bisogno di trovare un modo per mettersi in contatto con la Nasa, dove pure sono tutti superintelligenti e superefficienti. E a guardarli, lui e i suoi compatrioti cervelloni campioni di problem solving, inevitabilmente finiamo per pensare, dal salotto di casa nostra dove siamo barricati, che un Mark Watney, pirata dello spazio e supereroe (vedete il film per capire perché) ci potrebbe fare comodo in questo momento. Non fosse che per il buonumore che è capace di metterci, mentre si diverte al ritmo immortale della disco music anni Settanta.