As Bestas, la legge dell’uomo e il seme della violenza

Il pluripremiato film del quarantenne regista spagnolo Rodrigo Sorogoyen è un thriller che accoppia una tensione insostenibile a una sceneggiatura raffinata con ribaltamenti sorprendenti

As Bestas

INTERAZIONI: 147

La partecipazione fuori concorso a Cannes 2022, una messe di premi festivalieri coronata dalle nove statuette ai Goya, il più importante riconoscimento del cinema spagnolo: ha messo d’accordo un po’ tutti As Bestas (in italiano con l’aggiunta del sottotitolo La Terra della Discordia), da cui emerge netta, e definitivamente, la cifra autoriale del poco più che quarantenne Rodrigo Sorogoyen, una già nutrita carriera alle spalle tra film e serie tv, capace di gestire millimetricamente la materia narrativa e una tensione cinematografica distillata in immagini di violenza compressa, apparentemente tranquille, pulite, senza virtuosismi stilistici o montaggi frenetici.

Sorogoyen, anzi, fa sua una lentezza quasi da western d’altri tempi, ispirandosi agli scenari in cui è ambientata la vicenda, la Galizia dell’estremo nord-ovest della Spagna coi suoi spazi brulli e immoti, abitati da un senso di abbandono per via del progressivo spopolamento, che incattivisce la comunità dei pochi che ancora restano.

Stride immediatamente, in quella terra chiusa nei suoi ritmi ostinati, l’arrivo dell’alterità anche culturale rappresentata da una tranquilla coppia francese di mezza età, Antoine (Denis Ménochet) e Olga (Marina Foïs), che hanno deciso di vivere la loro seconda vita lì. Lui ha un passato da professore, e insieme hanno intrapreso un’attività a base di agricoltura ecosostenibile, ristrutturando anche coi propri soldi vecchi casali abbandonati da non sfruttare per un turismo estrattivo, ma per offrire un’opportunità di ripopolamento dell’area.

I loro illuminati disegni si scontrano con la diffidenza atavica dei vicini di casa Xan (Luis Zahera, bravissimo) e Lorenzo (Diego Anido), fratelli di mezza età che vivono con la madre, chiusi dentro l’assenza di prospettive di un’esistenza stentata. E quando Antoine vota contro l’installazione delle pale eoliche, che per la povera comunità montana rappresentano l’unica occasione di un guadagno sicuro, l’invidia si trasforma in qualcosa di più concreto, andando oltre le battutine di scherno (Xan provoca continuamente Antoine chiamandolo “il francesino”) e le piccole ripicche, facendo precipitare la storia nella ferocia.

As Bestas, con questo titolo dal suono evocativo, feroce e ancestrale, è condotto con sapienza a partire da una sceneggiatura, firmata da Sorogoyen insieme all’abituale collaboratrice Isabel Peña, che incastra magistralmente gli snodi narrativi – con un ribaltamento inatteso della vicenda a metà film – e procrastina sul filo di una tensione lancinante la violenza che, una volta deflagrata, suona come la, purtroppo, logica conclusione di una situazione insostenibile. Il regista però, all’interno di una dinamica che, come è stato ampiamente notato, fa pensare a Cane di Paglia di Sam Peckinpah, evita qualunque effettismo da revenge movie e punta invece su di una cadenza assorta e assertiva, con una dizione che ha la consistenza aspra di quelle terre insieme magnifiche e respingenti.

As Bestas non è tanto una riflessione su conflitti di classe e di civiltà (pur evidenti), ma ha l’ambizione di porsi come un piccolo trattato sulla natura umana. Il film comincia con un prologo ripreso maestosamente al ralenti, in cui la marchiatura di un cavallo viene effettuata sottoponendo l’animale a un abbraccio a due che pare volerlo stritolare. L’immagine funziona non solo da segno premonitore di successivi sviluppi narrativi, ma suona come un’allegoria di un istinto intrinsecamente e ottusamente violento, che spinge gli uomini a esprimersi secondo una primordiale legge della sopraffazione.  

Il reale colpo d’ala di As Bestas, però, è nella netta deviazione impressa alla storia, che ne contraddice quasi alla radice i presupposti. La vicenda ruota fino a un certo punto intorno al triangolo maschile rappresentato da Antoine e i due fratelli, poi però la prospettiva si ribalta in quella che alla fine si rivela essere un triangolo al femminile. Al centro della scena emerge la figura di Olga, che persegue caparbiamente un’idea di giustizia che cerca nella resistenza, nella pazienza e nell’ostinazione una soluzione equa, rifiutando la violenza.

Per fare questo si scontra anche con la figlia venuta a a farle visita dopo molto tempo, esasperata dai tragici avvenimenti occorsi. E quando Olga, alla madre dei due fratelli, dice “ormai rimaniamo solo lei e io”, tendendole anche una mano, emerge un’altra idea di umanità possibile, nel segno del femminile. Anche se poi, a rendere più complesso e sfumato il discorso, va aggiunto che la resistenza, la pazienza e l’ostinazione Olga le ha paradossalmente imparate introiettando le regole di quel mondo altro cui sente ormai necessariamente di appartenere, al punto da riuscire anche a disattenderle e, chissà se solo individualmente, modificarle.

Continua a leggere su optimagazine.com